Il ritorno degli Stereolab
Instant Holograms on Metal Film è il nuovo disco, dopo 15 anni, degli Stereolab

Ricostituitisi sei anni fa, dopo una pausa decennale, per una serie di concerti coincidenti con il ciclo di ristampe discografiche targate Warp, solo in un secondo momento gli Stereolab hanno immaginato di produrre nuova musica: “L'idea di un altro LP si è concretizzata fra la primavera e l’estate del 2023. La maggior parte dell’album è stata scritta allora e abbiamo iniziato a registrare nel gennaio 2024”, ha raccontato a “Uncut” il londinese Tim Gane, da sempre coppia motrice del gruppo insieme alla parigina Lætitia Sadier.
Il risultato è Instant Holograms on Metal Film, undicesimo in repertorio. All’ascolto, non vi sono sorprese: lo stile della band rimane inconfondibile, posizionato in un crocevia del postmoderno nel quale convergono influenze disparate generando “avant-pop” dal gusto retrofuturista, dovuto all’impiego di strumentazione vintage, tipo l’organo di fabbricazione tedesca citato nel titolo di “Vermona F Transistor”, che a un certo punto ammonisce: “Stiamo sull’attenti di fronte a narrazioni preordinate per promuovere la discordia”.
L’accento engagé ne caratterizza l’identità fin dagli esordi (ricordiamo l’appello a “la resistance!” pronunciato al culmine di “French Disco”, nel lontano 1993), mai era stato enfatizzato però in maniera così esplicita (“Colour Television” denuncia ad esempio “la promessa di una classe media per tutti”). Un segno dei tempi, evidentemente. Dissimulata dalla disinvoltura pop di “Melodie Is a Wound”, ecco un’istantanea dei giorni nostri (“Il diritto pubblico di conoscere la verità, imbavagliato dai potenti, coltivano l’ignoranza e l’odio, l’obiettivo è manipolare”) da cui discende il retorico interrogativo finale: “La veridicità è diventata desueta?”.
Al solito, il vocabolario impiegato è raffinatissimo: basti menzionare la figura dell’eggregora (l’angelo guardiano nella tradizione esoterica), evocata nel madrigale francofono “Le Coeur et la Force”, e il neologismo attribuito a Coleridge incluso nell’intestazione di “Esemplastic Creeping Eruption”, tortuoso paesaggio sonoro “dove la luce e il buio si toccano”.
L’alternanza fra inglese e francese si nota in particolare durante il vivace numero yé-yé “If You Remember I Forgot How to Dream Pt. 1”: “Appartengo alla Terra, dico no alla guerra”, canta in madrelingua Sadier nell’apertura che sa di nouvelle vague, scivolando poi nell’idioma adottivo per descrivere l’effetto di un entanglement (“Incontro con un estraneo, una parte perduta di me stessa, perché io sono te e tu sei me”). Emblematico della pensosa leggerezza degli Stereolab è “Aerial Troubles”, che a dispetto di un quadro a tinte fosche (parla di “modernità morente” e “cure palliative”) scorre con andatura spigliata.
Vie d’uscita dai mali correnti del mondo? Magari “la libertà che solo l’amore conferisce”, nominata nella cornice da folk “progressivo” di “Immortal Hands”, impreziosito da tocchi di marimba e contrappuntato dai fiati degli amici di Chicago Bar LaMar Gay e Rob Frye, quest’ultimo implicato nei Bitchin Bajas come Cooper Crain, coproduttore di un lavoro che restituisce gli Stereolab all’attualità.
Prossimo passo è la tournée in partenza sabato da Dover: una sessantina di date, due delle quali in Italia, il 10 giugno a Ferrara e l’11 luglio al Siren Festival di Cagliari.