Il folk esistenzialista dei Florist
Jellywish è il nuovo album del quartetto guidato da Emily Sprague

Una storia piccina sulla quale ci eravamo soffermati già qualche tempo fa, per la precisione all’epoca di Emily Alone, quando i Florist si erano ridotti alla sola intestataria, cioè Emily Sprague, che ne è cantante, chitarrista e punto focale.
Ora, due album e sei anni più tardi, ritroviamo al completo il quartetto statunitense, nato come “progetto fra amici dai monti Catskill”, enuncia la pagina Bandcamp. Per identificare il nucleo concettuale di Jellywish conviene partire dal gioco di parole che lo intitola: si parla di meduse, e infatti poco dopo l’inizio arriva una canzone specifica, “Jellyfish” appunto (“Ci sono cose che non hanno alcun senso, tipo le meduse”, decreta il testo, salvo specificare poi: “Sei solo una piccolezza, ma la tua vita vale tanto, scaccia la sensazione di non essere abbastanza”), mentre in “Gloom Designs”, diafana ballata che scorre fra sciabordio d’acqua e rumorini non meglio identificati, il verso a soggetto dichiara “meduse, zero cervello ma un desiderio”, origine del neologismo di cui sopra. Così è in natura, del resto: quelle creature sono dotate di un’intelligenza puramente sensoriale.
A un ascolto distratto, la musica dei “fiorai” suona come folk esile nella struttura e naïf nello spirito, ad esempio in “Sparkle Song”, fatta di asciutto arpeggio fingerpicking, voce sommessa e poetica minimalista (“Lunedì di pioggia, riso bianco e patate dolci, cose semplici che ti rendono felice”). In verità, prestando maggiore attenzione, si colgono sfumature sottili negli arrangiamenti: “All the Same Light” è introdotta da una vibrazione quasi inintelligibile di sintetizzatore (Sprague ne colleziona di analogici e li impiega da solista in produzioni ambient) e chiusa da una chitarra elettrica impercettibilmente distorta, che amplifica il pathos implicito nel racconto (“Una foto dell’autostrada e il cielo del deserto, stasera hai trovato la luna, stessa luce e vite separate, cosa significa allora sognare un incidente d’auto?”).
Ci avviciniamo così a un altro topos narrativo, ossia il confronto con l’impermanenza: “Sto pensando di nuovo di morire, l’unica cosa che adesso mi passa per la testa”, recita l’incipit di “Started to Glow”, e la frase chiave in “This Was a Gift” è “Solo i morti sopravvivono”. Cosicché “Have Heaven”, il brano più “pop” della raccolta, sull’onda di una melodia incantevole e del ritornello a filastrocca, conclude in tono ironico: “Molto presto non saremo altro che un cartone animato fluttuante nell’universo”.
Intervistata di recente da “The Line of Best Fit”, l’autrice ha definito “esistenzialismo metafisico” il movente che indirizza la sua ispirazione e ne dà qui dimostrazione eloquente durante “Our Hearts in a Room”, descrivendo la vita come “una trappola, una mappa labirintica, una serie di eventi completamente casuale”.
Nonostante simili premesse, Jellywish è un disco che dà conforto.