Sleaford Mods: nichilismo formato Brexit

Eton Alive è il nuovo album degli Sleaford Mods: un viaggio provocatorio e senza filtro nella pancia dell'Inghilterra

Sleaford Mods - Eton Alive
Sleaford Mods
Disco
pop
Sleaford Mods
Eton Alive
Extreme Eating
2019

La prima emissione vocale, dopo sette secondi, è un rutto. Se il buongiorno si vede dal mattino… Gli Sleaford Mods, il duo originario dei sobborghi di Nottingham non ha fama di raffinatezza, del resto: brutti ceffi, modi da hooligan, male parole.

Fatto sta che in quel modo, accoppiando cioè il flusso di coscienza di James Williamson, snocciolato in bilico fra parlato e cantato (tipo lo Sprechgesang, per dirla con Schönberg), all’ostinato minimalismo elettronico delle basi musicali architettate da Andrew Fearn, gli Sleaford Mods sono diventati oltremanica una specie paradossale d’icona pop: difficilmente esportabile, per via dello slang dal marcato accento regionale impiegato nei testi, eppure straordinariamente istruttiva anche per noi. Come se parlasse la pancia del Regno Unito: nella zona di provenienza dei due, il grigio centro-nord industriale dell’Inghilterra, tre anni fa il Leave si è attestato intorno al 60%.

E dunque dal borbottio rancoroso delle loro canzoni trapelava in controluce il malumore che avrebbe generato la Brexit. I dischi con cui si affermarono fra il 2013 e il 2014 hanno titoli eloquenti: Austerity Dogs e Divide and Exit. Non più coatto di periferia, avendo traslocato in “una casa grande il triplo di quella vecchia”, declama con tono apocalittico degno di un John Lydon in “OBCT”, circondato da un cupo arredo sonoro di matrice post punk contraddetto a un certo punto dallo spernacchiare impertinente di un kazoo, Williamson sta cambiando registro.

Depurata dall’esplicita invettiva politica, per quanto il titolo alluda agli “Eton boys” responsabili della catastrofe, ossia David Cameron e Boris Johnson, la narrazione di Williamson indugia su una dimensione privata: rassegnato disgusto anziché protesta. In “Top It Up”, ad esempio, somiglia a uno scampato da Trainspotting: siamo al funerale di qualcuno avvezzo agli eccessi, pretesto per uno sguardo sardonico su morte e dipendenze (“Che uomo buono… Ma non c’era niente di buono in quella testa di cazzo”). Ironizza su se stesso, poi, confessando in “Subtraction”: “L’unico cambiamento che mi piace sta nelle mie tasche, sono un consumatore”. E tutt’al più se la prende con qualche collega: sferzante con il chitarrista dei Blur, nella fiammata impetuosa di “Flipside” (“Graham Coxon sembra un Boris Johnson di sinistra”), velenoso con i vecchi dinosauri del rock in “Big Burt” (“Sborsare 1.500 sterline per un reduce che nemmeno riesce a fare tre concerti di fila, ma che roba è?!?”) e nell’arrogante “Kebab Spider” (“Bingo punk con Rickenbaker, avete contratti discografici da quasi 30 anni, che ne sapete di agenzie per il lavoro e salari di merda?”).

Il consueto cocktail di misantropia, cinismo e humour nero, insomma: ciò che rende gli Sleaford Mods (e Williamson) eredi del compianto Mark E. Smith dei Fall. Eppure, questa volta, si percepisce nell’aria una vibrazione malinconica: nell’andamento mesto di “Firewall” (“Non sai neanche perché piangi, a causa del tuoi firewall”), oppure fra le righe dell’indolente “When You Come Up to Me” (“Cosa c’è fra le pieghe del piacere?”).

Invece d’imborghesirsi, gli Sleaford Mods si sono rabbuiati, osservando il panorama circostante. Ragion per cui, all’epilogo, in “Negative Script” concludono: “Non voglio un risveglio, non credo al divertimento”.

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