La lingua degli Skiantos

Una riflessione su "Freak" Antoni e la storia del rock italiano

Recensione
pop
Internet ha definitivamente modificato il modo in cui elaboriamo i lutti pubblici (ne parlava già Enrico Bettinello in questo bel blog), e il recente caso della morte di Roberto “Freak” Antoni – morte più sentita, perché tutto sommato in giovane età – non fa che confermarlo. I molti ricordi, moltiplicatisi su blog, giornali, social network, si sono concentrati sul “Freak” Antoni uomo, meravigliosamente simile (a leggere molti di questi racconti) al “Freak” Antoni personaggio, capace di boutade surreali, beffardo nell’affrontare la malattia, acuto e provocatorio. Fatti salvi i ricordi personali di quanti hanno intrecciato le proprie traiettorie con quelle di “Freak”, il rischio dei commenti “a caldo” stile social network è di limitarsi al ricordo-formuletta, la citazione brillante, l’episodio illuminante. Il repertorio degli Skiantos e i libri di “Freak” Antoni offrono una selezione pressoché infinita di aforismi citabili: «Bau Bau Baby», «Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti», e via così.

C’è però qualcosa di più, sotto la brillantezza della forma. Spiace che debba essere questa l’occasione per riflettere su quanto la tanto decantata genialità di “Freak” andasse al di là della trovata estemporanea, e per ripensare al ruolo - anomalo, radicale, di rottura - giocato nella storia della canzone italiana dai suoi Skiantos. Pochi (nessuno, probabilmente) i loro eredi: gli Skiantos sono un gruppo spesso dimenticato, derubricato a simbolo di una stagione breve e creativa (la Bologna del ’77), e come tale subito storicizzata.

La storia del cosiddetto “rock italiano” viene spesso scritta a partire dalla Bologna del ’77 – quella di Skiantos, ma anche di GazNevada / Centro d’Urlo Metropolitano – tralasciando tutto quanto era successo prima – e che rock era, ed era chiamato: dagli “urlatori” di fine Cinquanta alla lunga stagione del progressive. In questa idea di “nuovo inizio”, che trova conferme in molte storie della canzone italiana, gli Skiantos ebbero un ruolo decisivo. Non solo per l’attitudine provocatoria e “performativa” dei live (la pasta cucinata sul palco, il lancio di ortaggi con il pubblico), o per l’introduzione del “punk” (o di una sua interpretazione molto personale) in Italia, ma soprattutto per l’innovazione linguistica, la violazione sistematica delle convenzioni su cosa dovesse essere l'italiano per la canzone. Il sistema delle rime, dei contenuti, delle figure retoriche, della sintassi era radicalmente nuovo. E soprattutto, era concepito in aperta contrapposizione alla canzone italiana, e alla canzone “d’autore” – colta, intellettuale – in particolare.

Ehi non fare il sapiente / tu non sei divertente / Io che sono un ripetente / Io ti tiro un fendente
(“Diventa demente (la kultura poi ti kura)”)



O ancora, in “Largo all’avanguardia”.

Largo all’avanguardia / pubblico di merda / Tu gli dai la stessa storia / Tanto lui non ci ha memoria / Sono proprio tutti tonti / vivon tutti sopra i monti / Compran tutti i cantautori / Come fanno i rematori / Quando voglion fare i cori / Che profumano di fiori



Gli Skiantos, insomma, si erano inventati una via di fuga possibile: la canzone smontata, distrutta, per essere infine rifondata con una nuova lingua. Una «generazione dei giovani» che «penetra in modo suo nel reale e lo esplora, anche per noi» arrivava ad ammettere la grande filologa Maria Corti (non certo una fan) in uno dei primi interventi “seri” sulla lingua della canzone, datato 1982. La stessa Corti non aveva dubbi nel bollare gli Skiantos come «il gruppo più originale e creativo del rock italiano».

Ma negli stessi anni in cui gli Skiantos tentavano la loro personale – e solitaria – rivoluzione / apocalisse della lingua della canzone, la canzone d’autore sviluppava i propri anticorpi contro se stessa. Guccini aveva da poco composto la sua “Avvelenata” scagliandosi contro quanti incasellavano politicamente e artisticamente i cantautori. Bennato cantava il suo inno “Cantautore”, beffardamente elencando le doti di infallibilità “eroiche” della propria categoria. Si trattava di un modo diverso – più sottile, quasi un corto circuito – di superare i cliché della canzone, denunciandoli e smantellando il ruolo politico e poetico del cantautore "serio" imposto dalla sinistra: «Io sono convinto che in questo momento dire ad uno che è un cantautore, è come dirgli stronzo», chiosava in modo esemplare Rino Gaetano.

Alla fine, a sopravvivere saranno – cambiando pelle per non cambiarla – i cantautori. Il “rock italiano”, dopo la breve stagione bolognese, rinascerà ancora altrove, e sceglierà altre strade. La più proficua, sopravvissuta fino ad oggi, sarà quella letteraria, di un italiano spesso raffinato, che non risparmia riferimenti colti fino a fondersi, in tempi recenti, con quella stessa canzone d’autore tanto osteggiata.

La via “demenziale” scelta dagli Skiantos rimarrà poco percorsa. Inutile parlare di Elio e Le Storie Tese: se sicuramente sono “figli” – più odiati che amati – del gruppo di “Freak” Antoni, il loro background e le loro strategie musicali sono sempre state diverse. E in fondo, oggi siamo costretti ad ammettere che non tutti capirono il peso artistico insostenibile di quel “demenziale” che campeggiava sui dischi degli Skiantos: «noi che facevamo finta di essere stupidi e loro che ci prendevano per dementi veri», diceva, forse amareggiato, “Freak” Antoni in un’intervista del 1980.

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