Elettronica sacra, metal ordinario

Robert Lowe e gli Om nel cartellone di MITO

Recensione
pop
«Ricercare ciò che di sacro alimenta, non visto, l’ordinario»: è questa il “motto” di Il Sacro attraverso l’Ordinario, festival torinese organizzato da Il Mutamento Zona Castalia (con la direzione artistica di Giordano Amato, e Fabrizio Modonese Palumbo dei Larsen alla guida dello stream musicale). Una “ricerca”, nel senso migliore del termine, che batte da ormai diciannove edizioni percorsi anche impervi, e musiche “inaudite” – specie se accostate al concetto di “Sacro”. È il caso dell’evento previsto nel cartellone MITO Torino, che mette insieme tre nomi come Robert Lowe/Lichens, Sean Canty e Miles Whittaker/Demdike Stare e Om.

Il momento migliore della serata è il primo dei tre set, con Robert Lowe – musicista americano con un background nel post rock – nascosto dietro il suo moniker da solista, Lichens. Lichens propone una sorta di avvolgente ambient music scandita da pennellate di delay, lacerata da un canto vocalizzato ampiamente filtrato con effetti, sovrainciso, in registro sovraacuto. Una specie di versione doom dei Sigur Rós, da terre desolate, in cui la struttura ciclica si fa soffocante e sembra negare ogni tentazione epica, e ogni speranza. Una musica di una cupa bellezza: i coloratissimi visual, elementari nella loro concezione (cerchi e forme concentriche che fuggono verso i bordi dello schermo) regalano non pochi momenti di pura vertigine.

Non si può dire altrettanto del progetto Demdike Stare di Sean Canty e Miles Whittaker. Qui la musica si costruisce da altra musica, registrazioni, frammenti di colonne sonore e altre fonti di difficile riconoscimento. È in fondo il principio che muove il cosiddetto “pop ipnagogico” – musica come ricordi sonori più o meno percepiti sulla soglia del sogno, e ricucinati insieme. Qui siamo, piuttosto, in un incubo. Ma l’operazione non funziona: difficile trovare un filo, difficile entrare dentro questa musica in cui accostamenti in apparenza casuali difficilmente finiscono con il creare qualche senso. I visual – che recuperano vecchi b-movie con attrici coscione, strani paesaggi apocalittici e riti satanici – aumentano lo spaesamento: un pastiche di cultura pop senza alcuna ironia, che scade nel kitsch.

L’attesa era tutta per gli Om, band di provenienza stoner/doom metal da tempo approdata a quello che il programma di sala definisce una “struttura da canto tantrico capace di coniugare in modo personalissimo e originale lo stoner rock con la mistica induista”. Tutto vero, tanto che l’ultimo – e apprezzabilissimo – album si intitola Advaitic Songs, e mette insieme i Veda con la liturgia bizantina, in un format rock che qua e là si colora con riff figli dei Black Sabbath.
La “sorpresa” è che dal vivo gli Om – con Lowe terzo membro aggiunto alla chitarra e alle tastiere – suonano molto meno vedici e molto più stoner di quanto era lecito aspettarsi. Il basso di Al Cisneiros è una macchina da riff memorabili, seguito dalla batteria di Al Amos (troppo legnosa, in certe sezioni) ma il concerto, complice una scaletta davvero troppo corta – a malapena mezz’oretta – finisce con l’esprimere solo in parte il potenziale del gruppo: troppo ordinario per essere davvero sacro.

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