Godspeed You! Black Emperor: un requiem per Gaza

Il nuovo lavoro della band canadese è ispirato al dramma del popolo palestinese

GYBE
Disco
pop
No Title as of 13 February 2024 28.340 Dead
Godspeed You! Black Emperor
Constellation
2024

L’ottavo album del collettivo Godspeed You! Black Emperor, fondato 30 anni or sono a Montréal dai chitarristi Efrim Menuck e Michael Moya assieme al bassista Mauro Pezzente, è “senza titolo”, specificando tuttavia: “Al 13 febbraio 2024 28.340 morti”. 

Si tratta del numero di vittime causate dall’offensiva dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza alla data di completamento del lavoro in studio (l’ultimo conteggio a oggi disponibile ne stima viceversa 42.344).

L’esplicita inclinazione politica dei Godspeed You! Black Emperor, dichiarati antagonisti del capitalismo e dell’imperialismo, nella circostanza si focalizza dunque sul dramma del popolo palestinese. 

Unica fonte didascalica cui fare riferimento per decifrarne le intenzioni, considerata la proverbiale riluttanza all’esposizione nei media (niente web né canali social, rarissime interviste – l’ultima, concessa a “The Guardian”, risale al 2012 – e nessuna foto ufficiale, se non la sola che circola da sempre e che vedete qui sopra), è perciò l’introduzione affidata a Bandcamp sotto l’intestazione “La pura verità”: “Siamo andati alla deriva, discutendone. Ogni giorno un nuovo crimine di guerra, ogni giorno un fiore che sboccia. Ci siamo seduti in una stanza e lo abbiamo scritto insieme, registrandolo poi seduti in un’altra stanza”. 

Il risultato sono quasi 55 minuti divisi in sei tracce, quattro delle quali costituiscono l’ossatura dello show che i canadesi stanno portando attualmente in giro per l’Europa. Come sa chi ha dimestichezza con loro, è appunto la trasposizione dal vivo – integrata dal determinante supplemento dei montaggi video – a restituirne compiutamente l’essenza, ma nell’occasione – non essendo in programma alcuna tappa in Italia – dobbiamo accontentarci del disco, immaginando semmai l’effetto provocato da quel materiale eseguito in pubblico. 

Al cuore della scaletta del concerto sta ad esempio la coppia di brani che chiude l’album: il minaccioso mantra “Pale Spectator Takes Photographs”, dove nel crescendo vorticoso degli altri strumenti s’insinua il dolente violino di Sophie Trudeau, e “Grey Rubble – Green Shoots”, che inocula nel flusso sonoro un antidoto di speranza, scorrendo inopinatamente a ritmo di valzer verso un epilogo rasserenante.

 L’apertura è invece a tinte fosche: sospeso fra mestizia ed elegia, “Sun Is a Hole Sun Is Vapors” ha portamento da requiem e apre la strada all’imponente “Babys in a Thundercloud”, episodio che per estensione e prerogative (una specie di distillato del canone GY!BE: fra evocazioni ambient e sinfonismo apocalittico) rappresenta l’apice di un’opera ad alto tasso emotivo. 

Il pathos che suscita all’ascolto è proporzionato alla gravità del momento, del resto: “A malapena il vecchio ordine mondiale finge di preoccuparsi. Questo nuovo secolo sarà ancora più crudele. Sta arrivando la guerra. Non mollate. Scegliete da che parte stare. Resistete”, conclude il comunicato emesso dagli autori.

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