Selfie con dischi #9: Mario Esposito

La nostra rubrica dedicata agli "ascoltatori forti", gli irriducibili appassionati di dischi nell'epoca dello streaming 

Selfie con dischi Mario Esposito
Articolo
pop

Ascoltatori appassionati, collezionisti irriducibili, indomiti sognatori, enciclopedie viventi: sono i tanti uomini e donne che, pur avendo un altro lavoro, fanno dei dischi e della musica una delle attività più importanti della loro quotidianità. A queste persone, portatrici di stimoli, idee, emozioni e cultura musicale, abbiamo deciso di dedicare una rubrica, Selfie con dischi, un veloce ritratto in cui possono raccontare se stessi, la loro passione e, soprattutto, suggerirci un sacco di ascolti!

LEGGI TUTTE LE PUNTATE

Oggi è la volta di Mario Esposito.

Mario Esposito - Selfie con dischi

Nome: Mario Esposito

Dati personali: 28 anni, avvocato e produttore vitivinicolo, vive tra Nocera Inferiore e Trento

Dischi posseduti: circa 300 vinili e poco più di 500 cd

Formati: cd e vinile

Generi preferiti: Rock ‘n’ Roll, Blues, Alt-Rock, Glam, Indie Rock, Punk, Psichedelia, Alt Country, New Wave, No Wave, Shoegaze, Noise Pop, Garage, West Coast, Jangle Pop, Paisley Underground, R’n’B, Soul, Funky

 

Quante ore di musica ascolti mediamente al giorno e in che momenti?

«È difficile quantificare in ore il tempo che trascorro ascoltando musica, ma direi non meno di 3 al giorno. Ascolto musica soprattutto agli estremi, la mattina presto e la sera tardi, poi ci sono tanti piccoli momenti che cerco di riservarmi durante la giornata, approfittando magari di attività che non richiedono particolare concentrazione. Se non fosse un’abitudine spontanea e normalissima, detta così, sembrerebbe un lavoraccio!».

C’è un formato che preferisci? 

«Il formato che preferisco è il vinile, principalmente per la timbrica, sebbene non sia un “purista”. Anzi, a seconda delle circostanze sfrutto ogni dispositivo disponibile, sono un amante della musica, non un cultore del suono. Il formato disco ha, però, la dimensione più appropriata per appagare uno stato di bisogno che, evidentemente, non si esaurisce con l’ascolto. L’attenzione richiesta dal braccio del giradischi, il dover cambiare la facciata, la ricerca del solco (che spinge anche a memorizzare i titoli, perché non è così facile procedere per tentativi), la dimensione della copertina danno una certa consistenza alla musica, dal cui contatto scaturisce un sollievo ulteriore».

«A voi non capita di suggestionarvi al punto da dare al suono il colore della copertina?».

«La copertina, poi, è una componente essenziale, serve a creare l’immaginario dell’album quasi quanto il suono, è parte integrante delle avanguardie, per cui è doveroso concederle quanto più spazio possibile. (A voi non capita di suggestionarvi al punto da dare al suono il colore della copertina?)».

Quando hai comprato il tuo primo disco? Ti ricordi qual era?

«Il primo vinile che ho comprato è stato Revolver dei Beatles e avevo 16 o 17 anni, prima di allora acquistavo solamente cd. È curioso, perché a casa avevamo un giradischi molto complesso che non sapevo nemmeno accendere autonomamente; tuttavia, in negozio arrivò una stampa inglese di poco successiva al ‘66, anno di uscita del disco che dovevo assolutamente avere. Prima, esemplare avvisaglia del mio stato di necessità di un bene che, tutto sommato, potrebbe considerarsi superfluo! Però, devo dire che l’acquisto valse da stimolo per imparare la sequenza di accensione di quel giradischi maledetto. Lo stesso giorno in cui lo accesi per la prima volta misi su anche Cosmo’s Factory e Led Zeppelin II, che, chiaramente, erano già patrimonio della casa».

Dove acquisti principalmente i dischi?

«Acquisto dischi da Disclan di Mario Maysse, storico negozio indipendente di Salerno. Capita anche che ordini qualche titolo tramite Amazon, inoltre, ho un account premium su Spotify. Non mi ritengo affatto un oppositore di canali d’acquisto alternativi, eppure considero questo negozio il mio riferimento principale, oltre tutto l’avvicendarsi di supporti e canali degli ultimi 10 anni». 

«Verrebbe, allora, da chiedersi quale sia il valore aggiunto di un negozio di dischi. Paradossalmente la risposta che verrebbe da dare è “nessuno”, o quantomeno nessun valore intrinseco. Senza voler affrontare il tema della musica liquida si potrebbe dire che già Amazon sostituisca in tutto la funzione dei negozi, compresa quella dei consigli di acquisto, mirando a colpo sicuro con rigorosi algoritmi. Ma rimane il fatto che io continui a rivolgermi, anzi a frequentare (non certo per sentimentalismo!) Disclan». 

«E, allora, forse la risposta più che nel negozio va cercata nel negoziante, perché, nonostante la disponibilità illimitata di mezzi e canali (“Everything Now” canta Win Butler degli Arcade Fire), senza il dialogo con Mario Maysse sono abbastanza certo che avrei ascoltato meno musica. La conoscenza approfondita in più di 10 anni ha orientato le mie curiosità oltre le logiche di un algoritmo, introducendomi a mondi e stati a cui non avrei necessariamente avuto accesso». 

«Ci sono poi, altre considerazioni che attengono alle peculiarità del “luogo fisico”, ma che possono rilevare a seconda delle sensibilità. Chi ascolta musica, come chi, più in generale, si dedica ad attività che attengono alla cura della propria sfera emotiva, il più delle volte ha gusto. Per cui i negozi di dischi saranno quasi sempre bei posti in cui trascorrere del tempo. Dato per certo che ci sarà sempre qualcosa che suoni in sottofondo, l’esser circondati da copertine di ogni genere e di ogni avanguardia rende l’esperienza simile a quella della visita di un museo o a quella di ritrovarsi in una versione fisica di Instagram. Il corrispondente tecnico dello scroll si chiama digging».

Ci sono dischi che ascolti dedicandoti solo a quello e altri che ascolti facendo altre attività? 

«Alle nuove uscite cerco di riservare quasi sempre un momento di ascolto esclusivo, soprattutto se si tratta di album complessi o che m’interessano in modo particolare. Dopo un po’ quando diventano familiari, però, quasi tutti gli album si prestano ad essere ascoltati mentre si svolgono altre attività. È chiaro che in questi casi ne guadagna sempre un po’ l’attività e ne perde la musica».

«Certe cose, infatti, vengono colte unicamente attraverso una buona predisposizione che difficilmente si può avere mentre si fa altro. Per questo motivo, di recente, mi sembra che il cambiamento dei momenti di ascolto stia mutando anche il ruolo della musica e la funzione che le affidiamo. La perdita di rilevanza della musica come fenomeno culturale (e, soprattutto, controculturale!) coincide con il dato che nelle abitudini comuni la musica stia diventando sempre di più mero sottofondo a qualcos’altro. Se fino ad una decina di anni fa l’alternativa alle hit della radio era quella abbastanza impegnativa di doversi munire di uno stereo e di supporti fisici, adesso lo streaming e dispositivi di facile utilizzazione ci permettono di scegliere una radio personale fatta di playlist che il più delle volte sono pensate in funzione di qualcos’altro. Questo, probabilmente, incide anche sugli orientamenti delle produzioni dei generi “nuovi” o quantomeno contemporanei. Mi sembra vi sia una riduzione di tutti quegli elementi che non sarebbero percepibili o godibili con immediatezza. In modo molto approssimativo, quello che si perde con un’attenzione non esclusiva viene colmato con bassi sempre più gonfi, attacchi decisi e il ritorno a melodie che quasi mai esprimono un senso di minaccia». 

«Da ciò non ne segue alcuna critica ai generi contemporanei che nella loro dimensione sono godibilissimi e a volte anche esaltanti. Inoltre, non tornerei mai indietro al prezzo di perdere i mezzi e le possibilità di oggi. Solamente, mi auguro che questa tendenza di ascolto non assorba del tutto generi più burberi e meno immediati, perché ne verrebbe sacrificato un intero mondo emotivo e una funzione della musica che per me è ancora insostituibile. Per ora mi sembra non ci sia nessuna flessione, né di qualità né di numero di uscite, bisogna solamente accontentarsi di meno spazio e rilevanza».

Esiste un disco che hai amato tanto e che ora non riesci più a ascoltare, che non ti piace più? 

«Non mi viene in mente nulla, è molto più facile che accada l’inverso. Ho avuto bisogno di tempo per amare i Radiohead, gli Arcade Fire, i Wilco e Elvis Costello, per nomare alcuni dei casi più eclatanti. Di certo, però, rispetto al passato ascolto molta meno musica Roots Americana e Country. Fino a 5 o 6 anni fa, per familiarità di genere avrei apprezzato anche le ultime uscite di qualche vecchio artista autorevole, all’ennesima ripetizione di formule giovanili. Oggi al secondo ascolto faticherei. (Sia ben chiaro che non v’è nessun riferimento a Van Morrison che qualche tempo fa ha tirato fuori un album splendido!). Diciamo che nel genere, grazie soprattutto a Jonathan Wilson, Ryley Walker e Israel Nash Gripka riesco comunque a raggiungere l’equilibrio nella forza».

Possedendo tutti quei dischi, quante volte in media ascolti in un anno un disco nuovo? 

«Credo di ascoltare con attenzione circa 25, 30 nuove uscite all’anno, ma sono molti di più i vecchi titoli che riscopro. Effettivamente, dovrei invertire la tendenza».

Ci sono dischi recenti che pensi ascolterai ancora tra 10 anni? 

«Tra gli ultimissimi, credo che Dixie Blur di Jonathan Wilson abbia buone possibilità di essere tenuto in considerazione anche nei prossimi anni. Dal 2019, invece, continuo ad ascoltare con molta frequenza Titanic Rising di Weyes Blood, Happy in the Hollow dei Toy, And Nothing Hurt degli Spiritualized, Pony di Orville Peck, I Am Easy to Find dei National, The Unseen In Between di Steve Gunn, Two Hands dei Big Thief e Hope Downs dei Rolling Blackouts Costal Fever (che, invece, solo adesso scopro avere già due anni!)». 

Quali sono i tre dischi che più hai ascoltato (o ritieni di avere ascoltato) nella tua vita di ascoltatore e quelli che più hai ascoltato negli ultimi mesi?

«I primi che mi vengono in mente sono Blonde on Blonde di Dylan, Electric Warriors dei T. Rex e Howl dei Black Rebel Motorcycle Club. Negli ultimi mesi ho ascoltato tanto Darklands dei Jesus and Mary Chain, And Then Nothing Turned Itself Inside-Out e Painful degli Yo la Tengo e Dixie Blur di Jonathan Wilson».

Dovessi consigliare un solo disco della tua collezione a una persona che non lo conosce, quale sarebbe?

«Consiglio l’omonimo album dei Minor Victories, che forse ha avuto meno fortuna di quanto meritasse. Di italiano, per lo stesso motivo, l’esordio dei Costiera».

Minor Victories

 

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

pop

Sufferah. Memoir of a Brixton Reggae Head è l'emozionante autobiografia dello scrittore londinese di origini giamaicane Alex Wheatle

pop

Mutiny in Heaven, diretto da Ian White, è il racconto sincero e senza sconti del primo gruppo di Nick Cave

pop

Il film Bob Marley: One Love del regista Reinaldo Marcus Green non riesce ad andare oltre gli stereotipi