L'incredibile The Beatles: Get Back

I momenti migliori della serie-documentario di Peter Jackson sui Beatles, appena uscita su Disney+

The Beatles Get Back Peter Jackson
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Come buona parte della mia bolla social – e forse del mondo civilizzato – ho passato il weekend a guardare The Beatles: Get Back, la serie evento di Disney+ diretta da Peter Jackson (sì, lo stesso del Signore degli anelli) che recupera i materiali audio e video del celebre “film perduto” girato da Michael Lindsay-Hogg nel 1969.

The Beatles Get Back

Nel gennaio di quell’anno i Beatles si ritrovano per preparare uno special televisivo che, anche in seguito al temporaneo abbandono di George Harrison (il gruppo si sarebbe sciolto definitivamente un annetto dopo) si tramuta sotto lo sguardo delle cineprese in un indefinito progetto audiovisivo. Un documentario? Un film? La preparazione di un disco dal vivo? L'elemento ricorrente nelle conversazioni, pur nella diversità di vedute, è più che altro la voglia di riprendere a suonare tutti insieme dei brani nuovi, e non solo registrarli in studio a parti separate.

In cerca di un qualche arco narrativo e di una risoluzione finale per le riprese che si accumulano, i Beatles accettano di suonare dal vivo sul tetto degli studi Apple di Savile Row, per quella che sarà la loro ultima esibizione pubblica (e che diventerà una delle performance live più iconiche di sempre). I materiali registrati in quelle session saranno poi in parte recuperati per l’album Let It Be.

Le oltre 60 ore di video e 150 di audio disponibili erano in parte finite in bootleg e in altri progetti, ma non erano mai state editate, anche per scelta dei Beatles superstiti. Ricevuto il via libera, Jackson ne ha ricavato una miniserie da tre puntate da circa due ore e mezza ciascuna, che copre giorno per giorno le session. Per quanto il tutto possa risultare un po' pesante per chi non è almeno genericamente informato sulle vicende del gruppo, e per quanto si riconosca qui e là qualche sbavatura – scene ripetute, editing rivedibili –, The Beatles: Get Back è semplicemente una delle cose più incredibili, emozionanti e appassionanti che vi capiterà di vedere se siete fan dei Beatles.

Girato con in mente il modello del cinéma-verité e del direct cinema già applicato con successo al rock qualche anno prima – ad esempio in Don’t Look Back di D.A. Pennebaker – nelle mani di Jackson il progetto originale di Lindsay-Hogg si è tramutato in una sorta di reality show ante litteram, in cui veniamo fatti entrare in mezzo ai Beatles che parlano, discutono, litigano e – naturalmente – suonano.

In generale, l’immagine che dei Beatles viene fuori è piuttosto lontana da quella del gruppo litigioso e in crisi che è stata spesso associata alle session di Get Back. Al netto delle discussioni – e chiunque sia stato in un gruppo ci si riconoscerà – vengono fuori quasi sempre i rapporti umani profondi che legavano i quattro, e soprattutto la voglia e il piacere di suonare insieme.

Nell’impossibilità di raccontare tutto, ho raccolto – da fan – alcuni dei miei momenti preferiti nelle oltre 6 ore di The Beatles: Get Back, in ordine completamente casuale.

I pezzi che nascono

Uno degli aspetti più affascinanti si The Beatles: Get Back è la possibilità assistere alla nascita delle canzoni – e che canzoni. I Beatles adottano un metodo di scrittura che prevede di partire da una bozza musicale – di solito un giro di accordi, un riff, qualche parola del testo – per sviluppare per tentativi la canzone vera e propria. L’autore della bozza dirige l’arrangiamento, insegna gli accordi agli altri e poi si suona il tutto fino allo sfinimento, improvvisando delle parole («Di’ solo la prima cosa che ti viene in mente» suggerisce John a George, che si è piantato sul testo di “Something”). “Get Back” nasce letteralmente sotto gli occhi della telecamera, con Paul che strimpella il basso e George che sbadiglia.

Perché maltrattare i brani?

L’altra caratteristica delle session di Get Back – o forse in generale delle prove dei Beatles – è quella di maltrattare i propri pezzi, per impararli o semplicemente per noia. A un certo punto si assiste ad esempio a una lunga ripresa di “Two of Us” in cui John e Paul cantano il testo con un campionario di accenti diversi (peraltro imitati abbastanza male). Altrove si inseriscono parolacce, o si suonano versioni lente, veloci, swing… Deliziosamente fastidioso.

Le cover

In mezzo alle prove e ai maltrattamenti, compaiono anche innumerevoli cover, fatte per testare l’impianto o semplicemente perché a qualcuno viene in mente di farle, e gli altri gli vanno dietro: fra le più notevoli (oltre a tutto il repertorio rock’n’roll dei primi anni), “Mighty Quinn” e “I Shall Be Released” di Dylan, e il tema del “Terzo uomo”… Con l’arrivo di Billy Preston, che sarà di fatto un Beatle aggiunto per la seconda parte delle session fino al concerto, la varietà aumenta ancora.

John e Yoko

Anche se è francamente inspiegabile che ancora esistano, gli haters di Yoko Ono rimangono una categoria piuttosto numerosa. Il film di Peter Jackson restituisce una Yoko molto presente, forse troppo (è sempre seduta a fiando di John mentre i Beatles provano) ma profondamente rispettosa delle dinamiche del gruppo e molto serena nei rapporti con gli altri. Splendide le session con Paul alla batteria, John che maltratta la chitarra e Yoko che urla nel microfono: il punk-noise dieci anni prima.

La scena di culto: George sta provando questo nuovo pezzettino in 3 che ha in testa, “I Me Mine”. Yoko e John ballano un valzer in mezzo allo studio (peraltro piuttosto bene).

Paul «the boss»

Come viene fuori Paul, da The Beatles: Get Back? In realtà bene, come gli altri Beatles. Nella prima parte sembra in difficoltà nella mediazione con i colleghi, mentre cerca di far passare le sue idee. Per quanto possa peccare di diplomazia in certi passaggi (mai di educazione: rimane sempre profondamente inglese anche negli scazzi), si tratta comunque di un McCartney all’apice della sua produzione, che poco prima ha tirato fuori “Hey Jude” e che nel giro di poche settimane butta sul tavolo “The Long and Winding Road”, “Let It Be” e “Get Back” per limitarsi alle principali. Insomma, un po’ di ego autoriale ci può stare.

Allo stesso tempo, Paul – come tutti gli altri – si rivela profondamente fragile: con gli occhi lucidi sull’orlo del pianto quando si parla della possibile fine del gruppo, disperatamente alla ricerca dell’approvazione di John. Sempre molto comprensivo e positivo (e per molti sarà una sorpresa) nei confronti di Yoko e del suo rapporto con il vecchio amico.

«I start out writing songs about white walls, you know, ‘cause I think John and Yoko would like that. And they wouldn’t».

La frase: «I’m scared of me being the boss».

The harrisongs

A un certo punto si sta provando “All Things Must Pass”. «Is this a harrisong?», chiede John tra il serio e il faceto. Il film racconta anche delle difficoltà di George a farsi riconoscere come vorrebbe – come autore e come musicista – dagli altri (e in particolare da Paul). Al contrario, sembra più disposto ad aprirsi con John (gli rivela anche che vorrebbe fare un disco solista, cosa che poi in effetti farà a breve, recuperando proprio quella bozza come title track).

Nella prima parte viene documentata anche la sua fuga dai Beatles: «I think I’m leaving the band now. See you ’round the clubs».

La frase di John: «If he doesn’t come back by Tuesday, we get Clapton».

«If he doesn’t come back by Tuesday, we get Clapton».

Ringo, o la linea comica

Prevedibilmente tagliato fuori dalla parte più compositiva (ma assistiamo anche alla nascita di “Octopus’ Garden”, brano adorato dai ringofili), Ringo ne esce alla grande come persona e come personaggio. Come nei film “ufficiali” dei Beatles, è sua molto spesso la linea comica, e si rivela capace di sketch memorabili e di tempi comici da attore navigato anche nella realtà.

Le scene chiave.

Un lungo dialogo con Michael Lindsay-Hogg: «Do you like India?» gli chiede il regista nell’evidente tentativo di attaccare bottone. «No, not really» lo sega Ringo.

«Do you like India?». «No, not really».

Ringo che cerca di montare un leggio (di quelli di metallo pieghevoli) e lo storce oltre ogni possibilità di recupero.

Ringo che – nel mezzo di una conversazione – guarda serissimo George Martin e gli dice: «I farted. I thought I’d just let you know». Martin, che rimane il re dell’aplomb, non si scompone e gli risponde: «Thank you».

Ringo uno di noi.

Scene sparse

Nella lunga sequenza conclusiva con il rooftop concert, il giovane poliziotto sull’orlo di una crisi di nervi «perché abbiamo già ricevuto trenta lamentele per il rumore» che – quando la segretaria della Apple gli dice che stanno filmando sul tetto – risponde candido: «Beh sono certo che possono filmare e poi metterci il suono dopo», dimostrando di aver capito benissimo tutto. «Il punto è proprio farlo live, credo…» risponde imbarazzata la segretaria.

La visita di Peter Sellers, che si ritrova in mezzo a una surreale discussione tra John, Paul e Ringo, viene preso in giro per un po’, non capisce che cosa sta succedendo e fugge via goffamente abbozzando una scusa.

Il momento in cui in studio arriva uno Stylophone – piccolo sintetizzatore portatile che si suona con uno stilo, una specie di giocattolo – e tutti sono felici come bambini, con Billy Preston che prova subito a suonarci “Old Brown Shoe”.

Mal Evans, assistente dei Beatles, che suona l’incudine in “Maxwell’s Silver Hammer” e si diverte moltissimo.

Heather, la figlia seienne di Linda McCartney, che gioca con tutti e suona la batteria insieme a Ringo.

Yoko annoiata che legge The Beatles Complete Works.

La scaletta dei vecchi concerti ancora incollata sulla spalla del basso Hohner di Paul.

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