La Palestina all'Eurovision (passando per l'Islanda)

La partecipazione tra le polemiche degli Hatari all'ESC, e la loro collaborazione con l'artista queer palestinese Bashar Murad

Bashar Murad - Hatari - Eurovision Song Contest
Un fotogramma del video di "Klefi/Samed" degli Hatari con Bashar Murad
Articolo
pop

Si è conclusa ormai da qualche mese la sessantaquattresima edizione dell’Eurovision Song Contest tenutasi a Tel Aviv, ma le polemiche – soprattutto riguardo al boicottaggio di Israele promosso da diverse associazioni, e al tema delle posizioni degli artisti e dei soggetti coinvolti – sembrano non placarsi.

Nato nel 1956 da un’idea di Sergio Pugliese sul modello del Festival di Sanremo, l’Eurofestival fu tra le iniziative dell’EBU, la European Broadcasting Union, mirate a ricostruire pace e unità tra le nazioni devastate dai conflitti mondiali. Dalla prima edizione, che contava sei paesi fondatori, la gara si è evoluta, accogliendo sempre più partecipanti fino a diventare coproduzione internazionale delle reti nazionali membri dell’EBU, in cui la musica è ormai un aspetto quasi residuale rispetto all’importanza dello spettacolo e della trasmissione televisiva. Le canzoni sono ormai presentate quasi esclusivamente in inglese, talvolta secondo precisi criteri di “canzone eurovisiva” lanciati dai paesi scandinavi (più volte vincitori); oppure seguendo le tendenze radiofoniche di Regno Unito e Stati Uniti, e spesso non hanno alcuna diffusione fuori dal quel contesto. 

Gli organizzatori lo definiscono «l’evento live musicale più grande del mondo, un classico moderno, fortemente integrato nella cultura Europea collettiva e ora guardato anche nel resto del mondo». Il «resto del mondo» è rappresentato soprattutto dall’Australia, invitata nel 2015 per l’ottimo seguito di cui l’evento gode nel paese e mai più ritirata, e – appunto – da Israele, che ha debuttato nel 1973 in virtù del suo essere parte dell’area dell’EBU.  

Le regole dell’ESC sono semplici: le canzoni devono essere state pubblicate non prima di qualche mese dall’evento, non devono durare più di tre minuti, i partecipanti devono avere più di 16 anni. Non possono essere presenti più di sei persone sul palco, compresi ballerini e coristi e non possono esserci animali vivi.  Il veto più importante è però posto sulla politica: non dev’essere in alcun modo evocata nei pezzi proposti. 

«Le regole dell’ESC sono semplici, e il veto più importante è posto sulla politica: non dev’essere in alcun modo evocata nei pezzi proposti».

Apoliticità dunque, come valore fondante, regola scritta e inviolabile, da rispettare non solo nella scrittura dei testi delle canzoni, ma anche in tutti i messaggi veicolati dalle delegazioni e dalle trasmissioni nazionali, nonché ovviamente dagli artisti, sia sul palco durante lo spettacolo che in tutti i luoghi ufficiali dell’evento, comprese conferenze e sala stampa. 

Tuttavia, le controversie politiche sono un classico dell’Eurovision Song Contest: citando solo le ultime edizioni, nel 2016 l’Ucraina vinse con una canzone sulla deportazione dei tatari di Crimea, “1944”, di Jamala. La Russia disertò dunque l’anno successivo a Kiev, dove a Salvador Sobral, poi vincitore, l’EBU vietò di indossare una felpa con scritto “SOS refugees”, nonostante il cantante sostenesse che il messaggio fosse umanitario più che politico.  

L’edizione israeliana del 2019 è stata prevedibilmente anticipata da ogni sorta di polemica. Il BDS, Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni a Israele, ha chiesto a tutti i partecipanti il boicottaggio della gara – compresa Madonna, ospite speciale della finale; gli ebrei ortodossi hanno protestato contro la finale, prevista durante lo shabbat e anche per questo la gara, che inizialmente doveva svolgersi a Gerusalemme (scelta tutt’altro che apolitica) è poi stata spostata a Tel Aviv, città caratterizzata dalla movida, dal lungo mare delle cartoline di promozione turistica e dai locali gay friendly.  

La gara è da subito avvolta come in un muro di silenzio, isolata da polemiche, battaglie, manifestazioni, e anche dagli scontri che solo qualche giorno prima, mentre tutti gli artisti erano già a Tel Aviv per le prove, si agitavano appena fuori. L’evento è privo di grandi inciampi, ma durante l’esibizione di Madonna due ballerini si abbracciano e alcuni notano, in ombra, due piccolissime bandiere sulla schiena di entrambi: una palestinese e una israeliana. A rompere il silenzio arrivano gli islandesi Hatari, unici tra i 41 partecipanti, che durante l’annuncio dei punti dati dal televoto mostrano delle sciarpe palestinesi, subito fischiati dal pubblico presente in sala. In Islanda, prima nazione dell’Europa occidentale a riconoscere lo stato palestinese, una petizione con oltre 25.000 firme (su 332.000 abitanti) aveva chiesto di non partecipare alla gara in Israele.  

Gli Hatari si definiscono un «gruppo di performance artistica anticapitalista» e presentano all’Eurofestival una canzone intitolata “L’odio prevarrà” (“Hatrið mun sigra”), che alla vigilia delle elezioni del Parlamento Europeo (di cui l’Islanda non fa parte), recita “l’Europa si sbriciolerà”, denunciando la crescita dei populismi e dei neofascismi. Attirano l’attenzione anche per la stravaganza, per la proposta musicale insolita, per la costruzione teatrale, e anche per l’abbigliamento, che richiama il feticismo sado-maso «che ti costringe e insieme ti libera, come il capitalismo», hanno spiegato in conferenza stampa. In un contesto in cui sono vietati anche i riferimenti a marchi e brand, il gruppo si presenta con un finto sponsor, Soda Dream, parodia dell’israeliano Soda Stream, e gli attribuisce il motto dell’ESC di quest’anno – Dare to dream. Gli islandesi conquistano inaspettatamente persino il pubblico italiano, su Rai1, guadagnando molti punti al televoto e classificandosi infine decimi. 

Gli Hatari, poi criticati dal BDS per non aver seguito la richiesta di boicottaggio, sono gli unici partecipanti a visitare Hebron, e rilasciano più volte dichiarazioni durante interviste e conferenze stampa precedenti alla finale riguardo il conflitto israelo-palestinese; in una di esse, Matthías Haraldsson, uno dei due cantanti del gruppo, afferma che la segregazione dei palestinesi è molto evidente, e che si tratta di apartheid. L’EBU li convoca per comunicare loro che hanno raggiunto, se non superato, il limite di pazienza dell’Unione di Radiodiffusione. 

 «Tutto sta andando secondo i piani» ripetono Klemens Nikulásson Hannigan, Matthías Haraldsson ed Einar Stefánsson (che è a anche batterista del gruppo indie Vök). I piani vanno oltre il palco dell’ESC: i tre sono infatti parte di un progetto multimediale che coinvolge la creazione di una sorta di canale d’informazione musicale, Iceland Music News, che però ha solo loro come oggetto dell’attenzione, e che li segue a Tel Aviv girando brevi video-documentario caricati su YouTube, tra cui uno durante una celebrazione comune israelo-palestinese di vittime del conflitto. 

Sono i collaboratori di Iceland Music News a procurare le sciarpe con la bandiera palestinese che il gruppo mostra durante l’annuncio del televoto. Cercano a Ramallah un negozio che apra per loro nonostante il ramadan, nascondono le sciarpe ai soldati israeliani al confine e infine le portano al gruppo, che le nasconde negli stivali, come hanno raccontato al ritorno in Islanda in un’intervista per la tv nazionale RÚV. 

Hatari - Eurovision Song Contest

Qualche giorno dopo la fine dell’ESC, gli Hatari pubblicano una canzone realizzata con un artista musicista palestinese, Bashar Murad, coinvolto nella manifestazione parallela organizzata a Gaza, chiamata Global Vision. La canzone è in islandese e arabo, e il titolo è “Klefi/samed”: klefi, islandese per cella, samed arabo per saldo, resistente, nonché acronimo, forse non per caso, della società palestinese dei martiri del lavoro, impegnata nel fronte di liberazione della Palestina. Nel video, girato a Gerico, l’artista palestinese mostra la sua bandiera cantando “Non sarò cancellato”. Il connubio tra le due lingue è certamente insolito, la parte islandese si riferisce appunto a una prigione, anche metaforica “cassa di risonanza dell’isolamento”, e quella in arabo alla resistenza “dopo tutta questa tortura, sono solido, non mi piegherò”. 

L’EBU ha annunciato un provvedimento, atteso entro le prossime settimane, a carico dell’Islanda per aver infranto le regole della gara. Su change.org una petizione che ne chiede la squalifica ha superato i 44.000 firmatari, e il dibattito non si è fermato. Per gli Hatari è al contempo arrivato il sostegno da molti paesi del mondo. Che anche la gara canora celebre per essere solo intrattenimento, giochi pirotecnici e lustrini, abbia bisogno di contenuti? O come ha detto con aria ammiccante, le mani strette sul trofeo, il vincitore di quest’edizione, l’olandese Duncan Laurence, «la musica vince su tutto»? All’EBU l’ardua sentenza.  

Abbiamo raggiunto Bashar Murad per qualche domanda su tutta la vicenda.

Bashar Murad
Foto di Fadi Dahabrah

Com’è nata la collaborazione con gli Hatari?

«Volevano incontrare degli artisti palestinesi per conoscere le loro esperienze e comprendere diverse prospettive, quindi un amico in comune ci ha presentati e abbiamo parlato su Skype. Mi hanno fatto domande sulla mia esperienza di palestinese che vive a Gerusalemme Est. Poi mi hanno mandato la traccia della canzone e qualche giorno dopo io ho scritto la mia parte e gliel’ho inviata e la canzone era pronta a una settimana o due dal nostro incontro virtuale. Ci siamo tenuti in contatto, loro sono venuti ad aprile qui per girare il breve video di introduzione alle canzoni che va in onda durante la gara. Il giorno dopo le loro riprese ci siamo incontrati nel deserto, a Gerico, e abbiamo girato il nostro video. Poi abbiamo fatto editing, volevamo pubblicare la canzone la sera dell’Eurovision ma il video non era pronto quindi abbiamo dovuto aspettare». 

«Abbiamo mostrato loro sia le cose positive che quelle negative, tutto. La nostra vita quotidiana, con i check point, i campi, posti come Hebron dove la segregazione è molto evidente, ma anche i bar di Ramallah».

«Quando gli Hatari sono tornati per l’Eurovision, dieci giorni prima dell’evento, siamo andati in giro insieme, siamo stati ad Hebron, Gerusalemme, nei campi rifugiati, a Ramallah. Abbiamo mostrato loro sia le cose positive che quelle negative, tutto. La nostra vita quotidiana, con i check point, i campi, posti come Hebron dove la segregazione è molto evidente, ma anche i bar di Ramallah. Sì, la nostra vita è molto dura ma abbiamo artisti, musicisti, designers di moda, è una vita che è insieme normale e anormale».  

Parliamo della lingua, il mix tra arabo e islandese è sicuramente insolito

«È stata una scelta naturale rispetto a quello che stavamo facendo. Mi piace cantare in inglese ma credo che in questo caso le parole cantate nelle nostre lingue madri siano più potenti, senza compromettere il significato per renderlo più accessibile. Le loro parti erano già in islandese e le parole mi sono venute in mente molto spontaneamente, quindi in un certo senso non ho particolarmente scelto di cantare in arabo. Le parole sono arrivate e poi il mix suonava bene. Non sapevo niente dell’islandese o dell’Islanda prima di quel momento, il risultato era imprevedibile ma penso che le due lingue suonino bene insieme». 

Quale pensi che sia stata tra i palestinesi la percezione diffusa rispetto al gesto degli Hatari di mostrare la bandiera palestinese?

«In generale direi che sono stati felici, molte persone condividevano la foto sui social network ed erano entusiaste. In realtà fino a quel momento mi sembrava di stare guardando un qualche episodio distopico di Black Mirror con tutti che si divertono e poi dietro l’angolo accade qualcosa di talmente orribile, eppure lo nascondono e tutti prendono parte alla messinscena. Qualcosa doveva succedere, doveva esserci un punto di rottura. Penso che i palestinesi siano stati felici, almeno quelli che sono qui. Io comunque sostengo il boicottaggio, penso che sia un metodo efficace, ma ci sono diversi modi di mostrare solidarietà. In più credo che per chi vive fuori da qui sia facile sostenere il boicottaggio, ma per noi che viviamo qui è una vera battaglia».

«Mi sembrava di stare guardando un qualche episodio distopico di Black Mirror con tutti che si divertono e poi dietro l’angolo accade qualcosa di talmente orribile, eppure lo nascondono e tutti prendono parte alla messinscena».

«Soprattutto vivendo a Gerusalemme, tutto è controllato da Israele quindi boicottare è veramente difficile, anche se facciamo del nostro meglio. In conclusione, penso che tutti avrebbero dovuto boicottare Eurovision ma se qualcuno avesse avuto un buon piano per dimostrare qualcosa sarebbe stato ancora meglio. Non possiamo sempre respingere gli altri, abbiamo anche bisogno di aprirci e soprattutto di mostrare la nostra situazione. Se gli Hatari non avessero partecipato, lo avrebbe fatto qualcun altro magari in silenzio e lo spettacolo sarebbe continuato indisturbato. Sono sorpreso che tutti gli altri artisti abbiano partecipato tranquillamente, nonostante avessero certamente ricevuto messaggi per il boicottaggio, mi chiedo se avessero almeno cercato qualcosa su Google». 

«Sono sorpreso che tutti gli altri artisti abbiano partecipato tranquillamente. E non capisco l’idea che l’arte non debba essere politica, dire “sono un cantante voglio solo cantare” non ha senso, hai delle responsabilità, altrimenti per cantare e basta c’è il karaoke».

«E non capisco l’idea che l’arte non debba essere politica, dire “sono un cantante voglio solo cantare” non ha senso, hai delle responsabilità, altrimenti per cantare e basta c’è il karaoke».

Sei stato in tour in Islanda con loro. Che accoglienza hai ricevuto e quale pensi sia la percezione generale dell’Europa nei confronti del conflitto Israelo-Palestinese?

«L’accoglienza è stata calorosa. Il secondo giorno che ero lì c’è stato il concerto più grande a Reykjavík, e anche se la canzone non era stata ancora pubblicata le persone sono impazzite quando sono salito sul palco e tutti mi dicevano “Palestina libera” ed ero molto contento di vedere come anche gli adolescenti fossero consapevoli della situazione. Abbiamo fatto cinque concerti in cinque punti diversi dell’Islanda ed è stato molto bello viaggiare, fare i concerti ma anche raccontare la mia storia perché le persone erano interessante. Penso che abbiamo fatto qualcosa di importante, abbiamo fatto conoscere questa storia alle persone tramite la musica. Penso che la musica, anche di generi come pop e dance, possa essere politica. La musica ha avuto un ruolo importante nella liberazione della comunità Lgbt e degli afroamericani, tra gli altri, lo stesso può valere per la Palestina e per il mondo intero». 

«La musica ha avuto un ruolo importante nella liberazione della comunità Lgbt e degli afroamericani, tra gli altri, lo stesso può valere per la Palestina e per il mondo intero».

«La nostra lotta infatti non è solo per la Palestina, è per i diritti umani. Anche io non voglio fare il politico, anche io voglio cantare e fare il musicista perché è quello che mi piace. Ma con l’accezione negativa del termine politica, si lascia che la facciano esclusivamente i politici di professione. Invece la politica è anche la nostra vita quotidiana, ci riguarda tutti. Due giorni fa i fan degli Hatari mi hanno invitato a fare una live-chat e mi hanno fatto tutti domande sulla mia vita, su come loro possano aiutare. Io ora mi sento in una posizione di privilegio, perché ho più ascolto di altri palestinesi, a esempio a Gaza, quindi ora sento una responsabilità anche nei loro confronti, non posso più salire sul palco solo per cantare e ballare. Lo farò ovviamente, ma terrò a mente anche la responsabilità che ho e non credo che cambierà finché la situazione sarà così». 

Hai collaborato con Global vision, la manifestazione alternativa all’Eurovision, com’è stata quest’esperienza?

«Sì, l’evento è stato organizzato parallelamente all’ESC per sottolineare l’ipocrisia di organizzare un festival di questo tipo, che dovrebbe essere volto a promuovere pace e unità, in un paese che mantiene un’occupazione illegale di territori, un’occupazione violenta. L’abbiamo organizzato in diversi luoghi in Palestina, Haifa, Betlemme, West Bank, qualcosa anche a Londra». 

I palestinesi conoscono l’Eurovision? L’hanno guardato?

«Non molte persone guardano Eurovision qui, quelli che lo conoscono erano frustrati. Ma quello che è stato più frustrante è che l’Eurovision si è tenuto durante la settimana dell’indipendenza di Israele, che equivale alla Nakba, una catastrofe per i palestinesi, quindi mentre Israele celebra la creazione del suo Stato, noi commemoriamo i nostri antenati cacciati dalle loro case per fare spazio allo stato d’Israele. Avere l’Eurovision in quella settimana è stato come avere una celebrazione di questo, come dire “ok balliamo, cantiamo, facciamo festa e ignoriamo quello che accade alla porta accanto”. Come se tutti stessero celebrando la Nakba, è stato molto triste, e le persone continuano a dire che non vogliono rendere l’Eurovision politico, ma io penso che l’Eurovision sia già politico, è una gara tra nazioni e tenerlo in Israele lo rende ancora più politico, non si può evitare, e quando si dice “non renderlo politico” è come incoraggiare le persone a tacere, ed essere complici dei crimini dell’occupazione».

Cosa ne pensi di quello che è comunemente definito pink-washing del governo israeliano essendo tu stesso un artista queer?

«Penso che il pink washing sia una delle armi preferite di Israele per coprire i crimini dell’occupazione. Nella sezione commenti del nostro video su YouTube ci sono persone che dicono “divertente che difendano un paese che probabilmente li farebbe uccidere per essere queer friendly”, perché girano molte fake news. Non sto cercando di dire che la Palestina sia un ambiente sempre tollerante o accogliente, ma ci sono comunità molto accoglienti, così come ovunque. Ed è veramente sbagliato dipingere Israele come uno stato così aperto e pieno d’amore per la comunità LGBTQ+ perché in realtà ricevono molto attacchi, verbali e fisici, sia a Tel Aviv che in luoghi più conservatori. E poi appunto ci sono tutte queste fake news sulla Palestina, come quelle secondo le quali le persone omosessuali verrebbero lanciate dai palazzi, cosa che non succede. L’omosessualità non è illegale in Palestina, il tema non è stato ancora molto affrontato, semplicemente». 

«L’omosessualità non è illegale in Palestina, il tema non è stato ancora molto affrontato, semplicemente».

«A Gaza, sotto Hamas, è illegale, ma quella non è una situazione regolare, non è la realtà della Palestina, nessuno sa bene cosa accada lì, è come una prigione a cielo aperto con delle sue regole. Anche riguardo il fatto che io abbia fatto coming out e sia palestinese, molti dicono che posso farlo solo perché vivo a Gerusalemme, che è sotto il controllo di Israele, ma io vivo in una comunità palestinese, ho frequentato una scuola palestinese e vado spesso a Ramallah, a Betlemme, in tutte le città palestinesi. Sono sempre accettato al 100 per cento ovunque? Ovviamente no, ma sono accolto in molti luoghi e questo è quello che importa. Non ci possiamo sempre concentrare solo sulle cose negative e dire che sono tutti omofobi. E certo, i diritti della comunità LGBTQ+ sono importanti ma perché sono importanti i diritti umani fondamentali, come il diritto di spostarsi, la libertà di espressione e di parola».

E il tuo futuro come artista, che progetti hai?

«Farò qualche concerto nei prossimi mesi, anche in Germania. Sto lavorando a una canzone e a un video che uscirà prossimamente. Anche questa canzone è abbastanza politica e insieme personale, è sulla vita quotidiana qui, come palestinese che vive a Gerusalemme».

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

pop

Sufferah. Memoir of a Brixton Reggae Head è l'emozionante autobiografia dello scrittore londinese di origini giamaicane Alex Wheatle

pop

Mutiny in Heaven, diretto da Ian White, è il racconto sincero e senza sconti del primo gruppo di Nick Cave

pop

Il film Bob Marley: One Love del regista Reinaldo Marcus Green non riesce ad andare oltre gli stereotipi