Il mito dei Faust

Un imponente cofanetto discografico celebra i Faust tra il 1971 e il 1974

Faust band
Faust (foto Juergen D. Ensthaler)
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A mezzo secolo esatto dal debutto discografico, un’imponente collezione antologica (Faust 1971-1974, pubblicata da Bureau B) celebra la deforme grandezza dei Faust: elemento costitutivo del triumvirato “kraut rock” – epiteto dal vago sapore spregiativo impiegato allora dai commentatori angloamericani, affine allo “spaghetti western” affibbiato ai film di Sergio Leone – che un giovane Simon Reynolds indicò in un dossier a tema pubblicato nel 1996 da “Melody Maker”, a completare il quale erano Can e Neu!.

Se le intestazioni di queste altre due band alludevano rispettivamente alla “possibilità” e al “nuovo”, in questo caso veniva tirato in ballo il leggendario personaggio immortalato da Goethe: colui che anela a una conoscenza superiore, a costo di patteggiare con Mefistofele.

Nomen omen, davvero: il collettivo creato a Wümme, nei dintorni di Brema, su iniziativa di Uwe Nettelbeck (in origine critico cinematografico e poi simpatizzante della Rote Armee Fraktion, scomparso nel 2007) ambiva appunto a spostare gli orizzonti sonori in un altrove non ancora esplorato. Era insomma il jolly nel mazzo dell’eterogenea scena artistica in cui si esprimeva la prima generazione tedesca nata dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Rinchiusi per mesi dentro un edificio scolastico riconvertito in sala prove, gli aspiranti musicisti – tutti autodidatti – si avventurarono in estenuanti sessions d’improvvisazione dalle quali sgorgò il materiale grezzo destinato all’omonimo album d’esordio, edito nel settembre 1971 e impacchettato in un involucro – copertina trasparente con impressa l’immagine della radiografia di una mano stretta a pugno, vocabolo che in tedesco equivale a Faust – rievocato da quello del cofanetto in questione: tuttora, all’ascolto, un boccone di difficile digeribilità a base di dissonanze, rumorismi e grovigli di tagli-e-cuci, a metà strada fra musique concrète e dadaismo in stile Zappa.

Faust Band

Appena meno ostico fu il seguente Faust So Far (marzo 1972), dopo di che arrivò la chiamata di Richard Branson, intenzionato a ingaggiarli con la neonata Virgin Records: in cambio ottenne un geniale e caotico montaggio di registrazioni preesistenti, inscatolato in The Faust Tapes (maggio 1973) e messo in commercio al prezzo di un singolo (mezza sterlina), divenendo perciò nel Regno Unito inopinato best seller da decine di migliaia di copie.

A quel punto i Faust abbandonarono per la prima volta il loro quartier generale e diedero forma a Faust IV (settembre 1973) nel celebre Manor Studio in Oxfordshire: accolto malamente all’epoca, nel tempo ha acquisito status pari ai predecessori. Tanto bastò, tuttavia, a far cessare il rapporto con Branson, cosicché il disco registrato nel 1974 a Monaco di Baviera nei Musicland Studios di Giorgio Moroder è rimasto inedito – bootleg a parte – fino ai giorni nostri.

Il maggiore valore aggiunto di 1971-1974 sta proprio in quei tre quarti d’ora di musica rinominati adesso Punkt, di cui fornisce un’anticipazione breve ma densa “Fernlicht”.

Integrano l’offerta – disponibile in vinile su sette long playing e un paio di 45 giri, oppure in otto cd – i due volumi di Momentaufnahme: assortimento assemblato ricorrendo ai fondi di magazzino, che trattandosi però dei Faust sono meritevoli di attenzione. Lo dimostra, ad esempio, “Vorsatz”.

Com’è noto, la vicenda è ricominciata durante gli anni Novanta intorno ai superstiti Werner “Zappi” Diermaier e Jean-Hervé Peron, che hanno onorato il nome con intelligenza e dignità, per quanto a rappresentare la ditta siano ancora le gesta eroiche e sconclusionate compiute nel periodo iniziale.

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