Il finto rock immortale di Donald Fagen e degli Steely Dan

Due nuovi live per riscoprire il mito del gruppo più atipico del rock anni settanta

Steely Dan
Foto dalla pagina Facebook degli Steely Dan
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Oggi la galassia retromaniaca del rock’n’roll si arricchisce di due nuovi episodi, due dischi dal vivo che glorificano il mito di quel gruppo atipico che furono gli Steely DanNortheast Corridor The Nightfly Live di Donald Fagen (UMe).

Entrambi escono in cd e digitale (per il vinile bisognerà aspettare ottobre), e come si può immaginare sono attesi con trepidazione dalla fanbase e con relativa indifferenza da tutti gli altri – anche se paradossalmente sarebbero introduzioni ideali per chi non conosce la band.

Perché parlarne, allora? Per un motivo molto semplice: questi sono dischi che, contrariamente alla maggioranza delle pubblicazioni delle vecchie glorie del rock, mantengono una freschezza e una modernità che li colloca fuori dal tempo. Quante volte, ascoltando il disco più recente di una formazione storica, ci siamo ritrovati a fare paragoni impietosi con “i bei tempi andati”? Facendo finta che nulla fosse cambiato, ma sapendo benissimo che ad anni di distanza non si può avere la stessa energia vitale della gioventù?

Ecco, per gli Steely Dan questa regola vale molto, molto meno. E la cosa probabilmente dipende dal fatto che fin dagli esordi furono una cosa a parte rispetto ai classici gruppi di rock’n’roll.

Walter Becker e Donald Fagen, che nella New York di fine anni Sessanta vorrebbero fare musica insieme, hanno ambizioni diverse: sanno scrivere canzoni, se la cavano con le rispettive strumentazioni (basso e chitarra il primo, tastiere e voce il secondo), ma più che dal furore del rock sono affascinati dal jazz, dal blues e dal pop sofisticato. Miscelando tutte queste influenze, alle quali possiamo aggiungere un gusto particolare per le ritmiche latine, gli Steely Dan esordiscono nel 1972 con l’album Can’t Buy A Thrill e si fanno notare per un sound che non ha praticamente termini di paragone, e che nel corso di quel decennio viene perfezionato toccando vette di sublime ricercatezza pop (The Royal Scam) o di ambiziosi flirt col jazz rock (Aja). Nel 1981 il gruppo si scioglie, per poi riformarsi a sorpresa a metà degli anni novanta, e tornando poi a pubblicare inediti nel nuovo millennio.

Ascoltando Northeast Corridor, un live registrato in diverse location nel 2019, l’impressione è di avere a che fare con un gruppo coeso e pienamente convinto della propria identità. E questo malgrado Fagen sia ormai rimasto solo al comando della band (Becker è scomparso nel 2017), e che il repertorio spazi con disinvoltura dai successi dei primi anni settanta come “Bodhisattva” o “Rikki Don’t Loose That Number” fino all’amaramente ironica “Things I Miss The Most” del 2003 (peccato che manchi all’appello il primo pezzo che li rese famosi, la storica “Do It Again”).

Il sound degli Steely Dan, pur avendo avuto successo, non è mai stato veramente "di moda"; e siccome ha acquisito nel tempo una crescente eleganza formale, ha magari tenuto distante il pubblico dei rocker puri e duri, ma ne ha creato uno molto più trasversale ed eterogeneo, diventando a modo suo classico. Un classicismo che ben si respira in quest’ultimo disco: esecuzioni impeccabili, suono limpido, interpretazioni di classe. Con tutto quello che può avere di celebrativo, questo disco è semplicemente un best of che si può sentire senza pensare alla data di uscita delle canzoni. E non è mica poco.

Si può peraltro dire lo stesso dell’altro disco, una resa integrale dal vivo, sempre datata 2019, di The Nightfly, che fu l’esordio solista di Fagen nel lontano 1982 (Donald avrebbe avuto una carriera solista molto parca, appena 4 album in 40 anni, ma di livello sempre elevato). Il gruppo si era appena sciolto ma Fagen doveva avere qualche canzone già messa da parte, per cui c’è sicuramente una certa continuità con il sound ben noto; forse un accento maggiormente cantautorale e una netta vicinanza con il jazz classico. Di fatto, The Nightfly fu un disco cardine per la definizione di un certo sound degli anni ottanta: la new wave jazzata, che vide come capofila gli Style Council di Paul Weller ma innumerevoli emuli, dai Working Week ai Freeez ai famigerati Level 42.

Il jazz che sconfinava nel pop era improvvisamente un modo valido di fare hit da classifica, ma i primi esempi che ne diede Fagen nel suo esordio (su tutti la bellissima “New Frontier”, ma anche “Maxine”, “I.G.Y.” o la title track) rimangono memorabili. Anche in questo caso, la loro (ri)scoperta è un respiro di aria fresca.

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