Fabbri e la musica "non leggera"

Non è musica leggera (Jaca Book) raccoglie una selezione di scritti di Franco Fabbri sul repertorio classico e contemporaneo

Franco Fabbri non è musica leggera
Articolo
classica

Solo il titolo di questo volume, Non è musica leggera (Jaca Book 2020, 328 pp., 20,00 €) è già, palesemente, un manifesto programmatico. Innanzitutto nella sua introduzione Franco Fabbri annota che, in prima istanza (primavera 2020), il libro non aveva trovato un editore: «Ringrazio Paolo Soraci, che mi ha sostenuto moralmente a lungo, dicendomi che era impossibile che un libro così non trovasse un editore (e invece, caro Paolo...)».

Franco Fabbri non è musica leggera

E invece – appunto – il meritorio editore si è poi trovato e ha dato alle stampe questa raccolta di saggi di un autore noto ai più grazie a pubblicazioni quali – sempre citando dal testo introduttivo – «Il suono in cui viviamo. Saggi sulla popular music (1996-2008), o di Around the clock. Una breve storia della popular music (2008), o di altri come Elettronica e musica (1984), L’ascolto tabù (2005-2017), Album bianco (2001-2011)». Testi, questi, che hanno in effetti consacrato Fabbri tra i fondatori riconosciuti degli studi sulla popular music nel nostro Paese, e non solo.

Ma Franco Fabbri bazzica il mondo della musica – tra Novecento e contemporanea, in particolare – in maniera trasversale e, soprattutto, “libera” da tempi non sospetti: «Provengo da quella che di solito si chiama una famiglia musicale: il mio nonno materno era violoncellista alla Scala, la nonna era insegnante di pianoforte; mio padre, quando mi vedeva trafficare con il suo registratore a nastro (intorno al 1960) mi raccontava delle sue conversazioni con Toscanini (all’inizio degli anni trenta) a proposito del registratore a nastro d’acciaio (il Marconi-Stille), nelle quali il Maestro sosteneva che la registrazione e il montaggio avrebbero influenzato il futuro della musica. E mia madre era quella che, come ho raccontato altre volte, andava a disturbare Luigi Nono e Marino Zuccheri per far realizzare nello Studio di Fonologia della Rai di Milano effetti speciali per versioni radiofoniche di testi di Palazzeschi. Ho studiato chitarra classica, musica elettronica e composizione (con Luca Lombardi, al Conservatorio di Milano)».

È vero, è stato anche un componente di punta per anni degli Stormy Six, un gruppo rock piuttosto noto; ha inoltre partecipato alla fondazione della Iaspm (International Association for the Study of Popular Music), di cui è stato pure eletto presidente, oltre a rivestire i panni di docente di materie afferenti alla stessa popular music per diverse Università e Conservatori italiani e non solo. Nonostante questo, Fabbri si è comunque occupato per circa vent’anni anche di musiche “altre” – jazz a parte – «discutendone in pace con persone come Luigi Pestalozza, Luigi Nono, Giacomo Manzoni, Armando Gentilucci, il mio maestro di composizione Luca Lombardi e il suo collega Adriano Guarnieri, non proprio persone prive di senso critico e fra le più accomodanti di questo mondo, così come del resto Gino Stefani, Mario Baroni, Roberto Leydi, senza avere mai la minima percezione che le mie idee sulla musica fossero “pericolose”».

Pur non appartenendo io al mondo accademico-musicologico italiano con il quale l’autore si è scontrato (vedi ancora la parte introduttiva di questo libro), segnalo per la cronaca che ho avuto occasione di conoscere personalmente Franco Fabbri anni fa, quando l’ho coinvolto, tra il 2004 e il 2007, in alcuni convegni organizzati dalla Casa della Musica di Parma, realtà con la quale all’epoca collaboravo. Una conoscenza, quindi, che si è generata – almeno da parte mia – sulla scorta di una cordiale stima (e che paleso qui per trasparenza), ma che non mi ha mai dato modo di percepire lo studioso come “pericoloso”. Ciò non toglie che lo stesso Fabbri – che ha ricoperto comunque ruoli universitari “incardinati”– si possa essere confrontato con una «catena di vicende accademiche orrende», come riporta lui stesso.

Detto questo, rimane il fatto che, al di là delle legittime personali rivendicazioni, in questo volume sono soprattutto gli scritti – originariamente prodotti per realtà come il Teatro alla Scala, riviste varie e altre istituzioni – a restituire la qualità di un autore dal particolare e forse unico talento, disegnando il quadro di interessi coltivati da uno studioso capace di indagare con palese metodo ed efficace sintesi repertori musicali che vanno da Mahler a Beethoven, da Richard Strauss ad Arnold Schönberg; e ancora, dal mondo eclettico del Leonard Bernstein compositore al Seicento riscoperto nell’Orfeo di Luigi Rossi, fino a raccontare l’arte e l’opera di personalità quali, tra gli altri, Penderecki, Lutosławski, Glass, fino allo Zappa “non popular”.

Nella seconda parte del volume trovano spazio, inoltre, riflessioni più teoriche, utili a mettere a fuoco aspetti storici e metodologici propri di un approccio allo studio delle “musiche” che va al di là dei generi e degli stili – vedi in particolare saggi quali I nomi delle musiche, La musica: un falso molto autentico, veramente fasullo e L’inganno della “ricerca” – esempi preziosi per metodo, sguardo trasversale e apertura mentale.

Costantemente presente – ora più in superficie ora in filigrana – in questo volume di Fabbri appare dunque il tema dei generi musicali – musica “classica”, “colta”, “d’arte”, “popolare”, “leggera”, “di consumo”, e così via… – riportandomi alla mente l’imbarazzo e lo smarrimento di Giorgio Pestelli, annotati in suo articolo del 1993, di fronte all’ipotetica domanda «qual è la sua specializzazione?», alla quale il musicologo avrebbe voluto rispondere: «nel mio lavoro la mia specialità è l’amore, il turbamento, ben noto a tutti i trattati d’amore, che producono in me alcune musiche che mi toccano in fondo all’anima».

Altra reminiscenza sollecitata dalla lettura di queste pagine è relativa alla “Premessa” del volume Note in libertà di Marcello Sorce Keller – autore peraltro vicino allo stesso Fabbri – in cui si legge «che i capisaldi della filosofia romantica dell’arte, che tanto hanno nutrito l’estetica “popolare” del Novecento, ormai scricchiolano e fanno acqua da tutte le parti: l’idea di genio, di opera immortale, di giudizio della posterità, la perdurante convinzione che esista una musica “leggera” e una musica “pesante”».

D’accordo, quella raccontata in queste pagine grazie alla passione e alla competenza di Franco Fabbri non sarà musica “leggera”, ma non mi pare neppure si possa definire tout court musica “pesante”. Possiamo dire, piuttosto, che si tratta di musica molto, molto interessante.

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Articolo in collaborazione con Fondazione Ferruccio Busoni Gustav Mahler