Frank Ocean
Endless/Blond(e)
Boys Don’t Cry
Da tempo si annuncia la “morte del disco”, ma adesso ci siamo davvero. Non è tanto questione dell’oggetto in sé, quanto del concetto in esso implicito. Prima The Life of Pablo di Kanye West e ora Blond(e) di Frank Ocean: eventi multimediali costruiti intorno a un contenuto musicale che una volta sarebbe stato inscatolato, appunto, dentro un disco.
Personaggio intrigante ed elusivo, il ventottenne Christopher Edwin Breaux era atteso al varco dopo il botto di Channel Orange, best seller nel 2012 premiato l’anno seguente con un Grammy Award. Si era rivelato al mondo un nuovo protagonista della musica nera, che aveva fatto gavetta nel clan hip hop californiano Odd Future ed esordito da solista nel 2011 con il mixtape Nostalgia, Ultra, offrendo una visione peculiare dei canoni del soul e del rhythm’n’blues in grado di rivaleggiare con i vari The Weeknd e Drake. A ciò si aggiunga l’eco propagatasi sull’onda del suo coming out attraverso un messaggio postato su Tumblr, tale da renderlo un “caso” nella comunità afroamericana. L’aspettativa a proposito del lavoro successivo era dunque febbrile, a maggior ragione considerando che se ne parlava da tre anni abbondanti.
Dopo alcune avvisaglie sul web, ecco comparire il 19 agosto Endless: filmato di 45 minuti – dotato di relativa colonna sonora – nel quale Ocean costruisce una scala a chiocciola. Tecnicamente: un “video album”. Il bello doveva venire, però: 24 ore più tardi, è spuntato fuori in esclusiva su iTunes il disco “vero”, Blonde (anche se la “e” finale in copertina non c’è), acquistabile solo come file digitale (a meno che non si fosse tra i fan accorsi nei quattro negozi temporanei aperti a New York, Los Angeles, Chicago e Londra, dove il cd era offerto in allegato al magazine gratuito “Boys Don’t Cry”, realizzato per l’occasione e attualmente quotato in media 500 dollari su eBay). Risultato: un putiferio diplomatico fra Apple, titolare di iTunes, e Universal, casa madre del marchio Def Jam, verso cui l’artista da contratto era ancora debitore di un titolo (il preambolo Endless è servito pure a quello scopo), mentre Blond(e) veniva scaricato illegalmente da legioni di ascoltatori (750mila in cinque giorni nel solo Regno Unito, per citare l’unico dato divulgato ufficialmente). D’altra parte, a oggi, non v’è modo di acquistare il supporto fisico. Fine della storia.
In tutto ciò, a differenza del disco, la musica non scompare affatto. Anzi, Frank Ocean mette in mostra compiutamente il proprio estro percorrendo rotte insolite, fra schegge di rap (con i camei di André 3000 degli Outkast e Kendrick Lamar, rispettivamente nel reprise di “Solo” e in “Skyline To”), astratti acquerelli soul modello James Blake (prova del nove: l’apparizione del “viso pallido” londinese in “White Ferrari”) e ballate diafane che sconfinano dall’alveo convenzionale della black music (all’incantevole “Ivy” partecipano Jamie xx e l’ex Vampire Weekend Rostam Batmanglij, stelle del firmamento “indie”), quando in rappresentanza del mainstream dell’era Obama figurano nel cast Beyoncé e Pharrell Williams (implicati entrambi “Pink White”, bizzarria R&B a ritmo di valzer). Blond(e) ne è tuttavia formalmente distante: se “Self Control” è costruito con voce, chitarra e poco altro, quasi folk stile Bon Iver, nell’ambizioso “Seigfried” aleggiano gli archi neoclassici della London Contemporary Orchestra arrangiati da Jonny Greenwood dei Radiohead. L’umore è introspettivo, incline allo spleen. Nell’iniziale “Nikes”, il canto deformato dall’Auto-Tune recita: “RIP Trayvon/quel negro mi somigliava”, alludendo al 17enne ucciso nel 2012 in Florida da un poliziotto, la cui assoluzione diede il via alla campagna Black Lives Matter. E tra un predicozzo materno (“Be Yourself”) e una disavventura sui social (“Facebook Story”), l’affresco poetico che si palesa è insieme radicato nel passato, immerso nella contemporaneità e proiettato nel futuro. Difficile competere con lui a simili livelli.