"Amelia": in volo con Laurie Anderson

Il nuovo album dell’artista newyorkese celebra Amelia Earhart, pioniera dell’aviazione

Laurie Anderson
Laurie Anderson
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Qualche mese fa, in maniera del tutto accidentale, su TikTok è diventato virale “O Superman”: brano di Laurie Anderson che nel 1981 fu improbabile best seller nell’hit parade britannica, al quale è stata dedicata un’avvincente storia orale sull’ultimo numero di “Mojo”. «I miei soggetti sono navi che affondano, aerei che si schiantano e librarsi nel magico regno dell’aria», ha affermato lei nella circostanza, alludendo indirettamente al soggetto di Amelia (Nonesuch) lavoro da solista distante 14 anni dal precedente Homeland, cui seguì nel 2018 Landfall, realizzato insieme al Kronos Quartet e insignito di un Grammy Award. A proposito di quel premio: nel gennaio scorso le è stato attribuito alla carriera, lunga ormai più di mezzo secolo, mentre in maggio ha ricevuto la Stephen Hawking Medal per la divulgazione scientifica e l’International Astronomical Union le ha intestato un asteroide. Tanto basta a descriverne lo status di riverita icona dell’avant-garde. Dischi a parte, la sua agenda recente è affollata di residenze artistiche, mostre, installazioni in realtà virtuale e opere teatrali, ad esempio ARK: United States Part V, a novembre in anteprima all’Aviva Studios di Manchester. Appartiene a quest’ultima categoria la stesura originaria del progetto chiamato allora Songs for Amelia Earhart, presentato dal vivo alla Carnegie Hall nel febbraio del 2000 dall’American Composers Orchestra diretta da Dennis Russell Davies (“Una cacofonia”, a giudizio dell’autrice, intervistata da “The Guardian”), riadattato nel 2003 per alcune esecuzioni europee dell’Orchestra da Camera di Stoccarda, fino alla versione definitiva del 2019 per un’esibizione a Brno della Filarmonica locale, progenitrice di ciò che possiamo ascoltare ora. Affiancata dal medesimo ensemble, sempre agli ordini di Davies, con supplemento d’archi del Trimbach Trio e vari collaboratori, fra i quali Anohni e Marc Ribot, l’artista newyorkese manovra tastiere, apparecchiature elettroniche e viola, essendo altresì voce recitante, talora attraverso il filtro dell’Auto-Tune.

Amelia

Già commemorata nel 1976 da Joni Mitchell in un episodio di Hejira, Amelia Earhart – pioniera dell’aviazione ed emblema del femminismo – scomparve quarantenne nel 1937, tentando di compiere il giro del globo in aereo, dopo essere stata nel 1932 la prima donna ad affrontare la trasvolata dell’Atlantico. L’album – un flusso ininterrotto di 22 episodi in 35 minuti scarsi – ripercorre cronologicamente quel viaggio fatale lungo un tracciato scandito dalle 25 tappe effettuate delle 28 previste, affidandosi anzitutto agli scritti della protagonista: “Le parole usate in Amelia sono ispirate ai suoi diari di pilota, ai telegrammi che inviava al marito e alla mia idea di ciò che avrebbe potuto pensare una donna che volava intorno al mondo”, ha spiegato Anderson, definendola “blogger ante litteram”. Partenza dalla Florida: “L’aereo di Earhart era un bimotore Lockheed Electra, indicativo di chiamata KHAQQ, decollo il primo giugno dal Miami Municipal, l’ufficiale di rotta Fred Noonan seduto dietro”, annota “Takeoff”. Scalo successivo a “San Juan”, in Portorico: “Da quassù la vedo chiara come una mappa, una e dieci, l’ombra del mio aereo sull’acqua, le cime degli alberi della giungla sotto, seguo i binari della ferrovia, poi un fiume fangoso”. Quindi “Brazil” (“Il cielo è pieno di vie e strade, ma devi sapere come trovarle”), il transito sull’Equatore a ritmo di valzer (“Il mare è nero, volo veloce, l’orizzonte s’inclina, non riesco a vedere la linea che taglia il mondo a metà”), l’Africa da Dakar (“Badlands”: “Motore in stallo, spegnere, la cabina di pilotaggio è un forno”) a Khartoum (“The Letter”, rivolta ai nativi: “Spiega come e perché una donna pilota può cadere dal cielo sulla loro terra”) e il subcontinente indiano, fra Karachi e Calcutta, racconta “India and On Down to Australia”, dove si percepisce il controcanto lieve di Anohni.

 

Passata Bangkok (“The Word for Woman”), ecco in “This Modern World” la presenza spiritica di Earhart, evocata con una registrazione d’epoca (“Il mondo attuale della scienza e dell’invenzione è particolarmente rilevante per le donne, poiché le vite delle donne sono state interessate dalle sue nuove prospettive più di quelle di qualsiasi altra categoria”, dice), e nel seguente “Flying at Night” una sua reminiscenza rivelatrice (“Ricordo che a Los Angeles andavo negli aerodromi di notte e ammiravo i piloti spericolati fare il giro della morte in cielo, sapevo che avrei voluto volare”). Il tragitto riprende da Myanmar con “Road to Mandalay”, su garbato arpeggio di chitarra e archi dal gusto gitano (“C’è qualcosa che luccica a Nord Nord Est, è il mio aereo, la sua superficie così liscia luccica come una biscottiera inglese”).

Raggiunta la Nuova Guinea (“Broken Cronometers” e “Nothing But Silt”), incombe la sciagura: l’atollo di Howland, al centro del Pacifico, non verrà mai raggiunto. Lo sottolinea il pathos crescente degli arrangiamenti in “The Wrong Way” (“Niente più paracadute, visibilità nulla, il vento soffia contrario”) e “Fly Into the Sun” (“Località ignota, Fred privo di sensi, svenuto dietro, e le onde laggiù”), finché il destino si compie fra “Howland Island” (“Trasmetteva, volando verso l’isola, ma sulla frequenza sbagliata, più si avvicinava e più la voce diventava flebile”), gli accenti melodrammatici di “Radio” e il suggello di “Lucky Dime” (“Luccica, il mio areo luccica, come una moneta fortunata”). Impreziosito da un elegante arredo sonoro, fra musica cameristica e astrattismo ambient, Amelia sa restituire con efficacia la dimensione epica di un’impresa al tempo stesso eroica e fallimentare, la cui forza di suggestione viene amplificata adesso dalla notizia relativa alla presunta localizzazione del relitto: il prossimo inverno partirà una spedizione intenzionata a recuperarlo.

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