Jazz & Wine, parliamo di musica

Edizione da ricordare per il festival di Cormòns, fra l'Arkestra e Craig Taborn

Multikulti a Cormons, Jazz & Wine
Cristiano Calcagnile - Multikulti Foto di Enrico Romero
Recensione
jazz
Cormòns
Jazz & Wine of Peace 2017
24 Novembre 2017 - 29 Novembre 2017

A forza di impacchettarli e infiocchettarli a beneficio dell’assessore di turno, a forza di sproloquiare di eccellenze e territorio, di circuiti virtuosi, impatto economico e realtà locali, capita sempre più spesso di avere la sgradevole sensazione che i festival siano diventati una questione marginalmente musicale. Uno svilimento che va ben al di là delle comprensibili, e condivisibili, ragioni di mercato e delle necessità dettate dal deprimente contesto istituzionale: la deriva è generale, sistemica (se di sistema si può parlare). Figlia di scelte dal respiro fatalmente corto, che spesso annaspano nel pressapochismo e nel più becero provincialismo, e del diffondersi a tutti i livelli – amministratori, direttori artistici, promoter, addetti stampa, giornalisti – di una vuota e insopportabile retorica dell’evento (il caso del Torino Jazz Festival e delle sue grottesche traversie, ricapitolate qui da Jacopo Tomatis, è a dir poco emblematico). 

Per fortuna ci sono ancora festival dai quali si torna con la voglia di parlare di musica. Al netto di colline, vigneti, castelli e splendide cornici. Che pure abbondando dalle parti di Cormòns, e che il festival Jazz & Wine of Peace, a partire dal nome, non si è mai vergognato di tirare in ballo. Passeggiate, brindisi, degustazioni, abbonati pronti ad allungare avidamente il calice verso l'ennesima bottiglia stappata: il campionario è completo che più completo non si potrebbe. Al centro, però, resta la direzione artistica. La cui integrità è difesa con fermezza e coraggio. A fatica, certo, sgomitando con insidie e contraddizioni, ma cercando sempre e comunque di non cedere alle logiche da pro loco. Vedere per credere il programma allestito per l'edizione numero venti, uno dei migliori di sempre (il migliore?). Sei giorni fitti di proposte accattivanti, di esibizioni imperdibili, di concerti da scartare come pacchi regalo. Una benedizione per le orecchie. Una visione, un racconto.

Straordinario fin dall'incipit, affidato a Steve Coleman e ai suoi Five Elements. In versione quartetto con la tromba cristallina di Jonathan Finlayson, il basso elettrico di Anthony Tidd, la batteria di Sean Rickman a macinare metriche impossibili e il contralto del sassofonista di Chicago sempre più premuroso e avvolgente. Un set esemplare per coerenza e lucidità; un saliscendi mozzafiato scandito da violente accelerazioni (pazzeschi i dieci e passa minuti di faccia a faccia tra la batteria e il sassofono), da elettrizzanti dialoghi dal sapore vagamente be-bop (lo spirito guida Charlie Parker non ha mai smesso di tenere per mano Coleman e la sua musica), da improbabili citazioni (il Fats Waller di "Jitterbug Waltz") e da svisate meravigliosamente funky. Bello. Bellissimo. 

Non da meno il passaggio friulano del quartetto di Craig Taborn, affiancato da Chris Speed (sax tenore e clarinetto), Chris Lightcap (contrabbasso e basso elettrico) e Dave King (batteria). Anche qui coerenza e lucidità da vendere. Per un'ora di musica ad altissima densità, implacabile e maestosa nel suo strutturarsi secondo dinamiche basate su ipnotiche reiterazioni, meticolosi crescendo, addensamenti concentrici. Con due picchi memorabili: la rilettura di "Jamaican Farewell" di Roscoe Mitchell, con Speed nelle vesti di equilibrista del clarinetto, e il finale affidato a "Love in Outer Space" di Sun Ra, danzante omaggio al signore degli anelli di Saturno sparato nell'esosfera a meno di ventiquattro ore dall'atterraggio in quel di Cormòns di Marshall Allen. Che a 93 anni suonati, nel consueto delirio di paillettes, capriole e strambi copricapi, mettendoci più cuore che polmoni, più sentimento che suono, ha ricapitolato punto per punto il lungo elenco di ragioni che oltre mezzo secolo dopo rendono ancora unica un'esibizione dell'Arkestra. "Space Is the Place", "Rocket Number Nine Take off for the Planet Venus", "Angels and Demons at Play", "Interplanetary Music", "Saturn": contagioso l'entusiasmo, irresistibili siparietti e fuori programma. Oltre le contingenze, al di là delle categorie. Inchino strameritato.

Decisamente più incalzante l'assalto all'arma bianca condotto dal trio del sassofonista James Brandon Lewis, accompagnato da Luke Stewart (basso elettrico) e Warren G. Crudup III (batteria). Funky-free-soul-jazz mitragliato sul pubblico a volume altissimo (la location, uno stanzone basso e lungo, di certo non aiutava a contenere l'esplosione di suono), con il tenore di Lewis, non a caso allievo di David S. Ware, a riecheggiare l'ultimo Coltrane e l'Ayler di Music Is the Healing Force of the Universe. Musica tosta, black fino al midollo, compiaciuta e sfacciata. Un salutare schiaffone a mano aperta rifilato a professorini e benpensanti. Solo carezze invece dal trio Hear in Now, al secolo Silvia Bolognesi (contrabbasso), Tomeka Reid (violoncello) e Mazz Swift (violino). Trame leggere, squarci lirici, visioni cinematiche e piccoli saggi di interplay in un gioco di preziosi contrappunti dal sapore cameristico e dal calore indubbiamente jazz (un tuffo al cuore lo spiritual cantato dalla Swift prima del sipario). Analogo per gamma di colori e impostazione narrativa il trio del trombonista Filippo Vignato, con Yannick Lestra al Rhodes e Arnaud Biscay alla batteria. Anche qui leggerezza e cantabilità a farla da padrone, con estremo gusto e impeccabile senso della misura. La conferma di un talento enorme.

Conferma doppia visto che lo stesso Vignato ha timbrato il cartellino anche in occasione del live del quintetto Pipe Dream, che oltre al trombone allinea la batteria di Zeno De Rossi, il vibrafono di Pasquale Mirra, i tasti bianchi e neri di Giorgio Pacorig (al pianoforte e al Rhodes) e il violoncello di Hank Roberts. Un progetto collettivo che dalle buone intenzioni messe su pentagramma in fase di scrittura e di allestimento, è arrivato di slancio alla prova del palco. Superata con lode dall'alto di un'incisività e di una compattezza sorprendenti, di una sincerità autenticamente emozionante (che bellezza i rimandi alla New York di fine anni Ottanta, a Frisell e ai mitici Black Pastels). Un piccolo miracolo reso possibile dall'evidente consonanza tra spiriti affini, tra sensibilità convergenti, un incontro benedetto e riuscitissimo che è andato ben oltre la trita e logora formula del super ospite americano. Ovazione travolgente per la vera rivelazione del festival.

Applausi scroscianti anche per il quartetto Frontal del pianista Simone Graziano, con Dan Kinzelman al sax tenore, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Stefano Tamborrino alla batteria. Protagonista di un set abrasivo e frizzante. Cementato da un'intesa telepatica e costruito attorno a una serie di brani maledettamente efficaci. Jazz moderno, sbarazzino, reso ancora più incazzoso e problematico da un fonico in vena di scherzetti (volumi cambiati in corso d'opera, riverberi inseriti a tradimento). Da brividi un paio di libere uscite al Rhodes di Graziano, da spellarsi le mani un solo di Kinzelman sospinto dalla sezione ritmica fino ai confini delle umane possibilità (Michael Brecker dall'alto ha probabilmente annuito). Palco diverso, esito simile per l'ottetto Multikulti del batterista Cristiano Calcagnile, con Gabriele Mitelli alla cornetta, Nino Locatelli al clarinetto basso, Paolo Botti alla viola e al banjo (ma anche al violino di Stroh, all'erhu cinese e al salterio), Massimo Falascone al sax contralto e al baritono, Gabriele Evangelista al contrabbasso, Dudù Kouate alle percussioni e Alberto Braida al pianoforte (al posto di Pasquale Mirra e del suo vibrafono). Filo conduttore, come sempre, la musica di Don Cherry. Smontata, rimontata e travisata in una sorta di festosa celebrazione della gioia di condividere (ed esistere) che da un lato si riallaccia direttamente al post-free di matrice black e spiritual (l'Archie Shepp dei sabba orchestrali), e dall'altro rimanda all'esuberante vitalità africana della Brotherhood of Breath e alla tridimensionalità inclusiva dell'Arkestra. Pazzesco l'impatto, elettrizzante lo sviluppo, con i temi e gli unisono a scandire i tempi emozionali della narrazione. Una meravigliosa garanzia.

Chiusura dal taglio classico con il duo David Murray - Hamid Drake e con il New Quartet del trombettista Enrico Rava. Pirotecnici il sassofonista californiano e il batterista di Chicago, alle prese con un'ora abbondante di effetti speciali e corse forsennate. Senza calcoli, senza fronzoli. Alla vecchia. Uno sguardo, un cenno, poche parole e via pedalare. "Flowers for Albert", ripescata dal disco d'esordio di Murray, anno di grazia 1976, e un evocativo scambio di vedute tra il clarinetto basso e il tamburo a cornice i picchi assoluti. Rava si è presentato invece alla testa del suo quartetto giovane, con Francesco Diodati alla chitarra, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria. Una formazione che nel tempo è cresciuta e che ha raggiunto ormai un felice equilibrio: il maestro entra ed esce dalla musica, osserva e dirige con discrezione, mentre gli allievi si divertono sfruttando gli ampi spazi a disposizione e garantendo il necessario apporto di freschezza e imprevedibilità. Pienone. Applausi. All'anno prossimo.

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