I 10 migliori album del 2023 di Guido Festinese

Il meglio dei dischi usciti nel 2023 secondo i collaboratori del giornale della musica

migliori album 2023
Penguin Cafe (foto Alex Kozobolis)
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Che cosa lega assieme dieci dischi che, con tutte le approssimazioni per difetto del caso, rappresentano per chi li indica un po’ il meglio dell'anno che va a chiudersi?

Apparentemente nulla, se si va oltre il comodo recinto dei “generi” dove il rischio di confondersi è minimo, visto che si premiano le proprie certezze. Allora il senso qui sarà un altro: scegliere – dopo un riascolto attento e in rigoroso ordine alfabetico – le cose che hanno regalato emozioni intense, dato da pensare, confermato quanta strada c’è appena dietro di noi e quanta è possibile percorrerne con buona dotazione, in alternanza, di memoria e di visionarietà.

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1. Paolo Angeli, NíJar (AnMa)

Da molti anni Angeli diffonde magia con la voce e la sua impossibile chitarra sarda “preparata” che è un’orchestra intera di possibilità, tutte controllate con sapienza e apparente facilità dal musicista. Qui si va oltre: se cercate un incontro tra l’Andalusia assolata e assetata e certi identici paesaggi interni della sua Sardegna, qui trovate l’impossibile crasi geografico-musicale. Sottotitolo: “una colonna sonora immaginaria per Bodas de Sangre di Federico García Lorca”.

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2. Belzer, Un elegante disastro (MGA)

Già il titolo non lascia indifferenti, però i dischi veri e belli non si fanno coi titoli azzeccati, ma con la forza della proposta complessiva. Belzer mette assieme in una miscela sanguigna e potente molte delle migliori istanze dell'indie rock della Penisola, ma il vero punto di forza arriva dai testi che sono affilati colpi di bisturi a incidere l’ascesso della memoria che affligge il nostro presente smemorato, consegnandoci mani e piedi legati a chi l’incoraggia scientemente, l’oblio.

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3. Maria Pia De Vito, This Woman’s Work (Parco della Musica)

Strategie di sopravvivenza e di resistenza per le donne nel nuovo disco di Maria Pia De Vito, con brani originali e sorprendenti cover in tema. Una delle voci “totali” della nostra scena, senza una briciola di quel birignao che a volte rende affettati e prevedibili il brani. Sarà che De Vito ha frequentato musiche popolari e antiche, pentagrammi sperimentali e improvvisazione, ma la sua splendida maturità invece di tradursi in routine è puro azzardo, come il fatto di mettersi attorno giovani musicisti: raffinati e capaci.

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De Vito

4. Ekiti Sound, Drum Money (Crammed Discs)

Ne 2019 c’era stato Abeg No Vex, gioiellino scintillante di nuova musica dalla Nigeria. Adesso arriva questo superbo esempio di cubismo ritmico, e l’asticella è molto, molto più in alto. Un labirinto di rimandi, groove, poliritmi, voci, juju music jazzata, su un flow irresistibile e incalzante. Bello perdersi in questo mare, navigato da alcune delle migliori menti musicali di Lagos, e scoprire (anche) che la cultura hip hop s’è ripresa sue radici afro.

Ekiti sound

5. Hawkwind, The Future Never Waits (Cherry Red)

Ci sono musicisti dalle estetiche musicali così avanti, quando appaiono, che anche quando i suddetti  vengono doppiati in pista, causa anagrafe e decenni di stanchezza accumulata su migliaia di palchi, si ritrovano di nuovo in testa agli altri. Dave Brock ha oggi ottantadue anni. È ancora alla guida del suo Millenium Falcon rattoppato, Hawkwind. Quando oggi ascoltate neo-psichedelia turbinosa e volteggiante ascoltate quello che ha inventato (anche) lui. La riprova in questo Hawkwind 2023. Tra i migliori di un lotto che si estende per sei decenni.

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6. Irreversible Entanglement, Protect Your Light (Impulse!)

L’approdo alla Impulse, la “casa che Coltrane costruì” per il collettivo fremente che s’è scelto per nome una bizzarria della fisica quantistica è più che un dato di cronaca: è il riconoscimento che qui pulsa uno dei cuori veri della Great Black Music, un filo rosso che parte dalla metà degli anni ’60 ed arriva all’oggi, mutatis mutandis, conservando tutto quello che non  ha smesso di essere incendiario. Una miscela di poesia, hip hop, malinconica mestizia, furore febbrile che incatena: jazz.

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7. Lucas Niggli Sound of Serendipity Tentet, Play! (Intakt)

Può esistere un ragionevole compromesso tra le ragioni dell’impro radicale e il lirismo acceso, il caso e la presa salda sull’architettura sonora? Sicuro, s’è c’è di mezzo un gruppo così. Un mazzo di carte estratte a sorte con indicazione: “ritmica”, “motivico”, “Sonica” “Colore”, otto direttori che si alternano nel tentet alla conduction, a rotazione, così come i solisti (magnifico Marc Unternährer alla tuba), strutturando la casualità e la sequenza di indicazioni delle carte con un rigore, diremmo, gioioso.

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8. Penguin Cafe, Rain Before Seven… (Erased Tapes)

...Fine before eleven, continua il proverbio inglese: dunque “se piove prima delle sette, arriva il bel tempo entro le undici”. Antico vezzo per gli albionici pinguini (ora nella versione guidata da Arthur Jeffes, degno figlio di cotanto padre) quello di giocare con i proverbi. Sta di fatto che l’aspetto ludico, ancorché trasfigurato in un’aura di sospesa svaporatezza, è essenziale per questa band.

Le suonassero altri, queste melodie, sembrerebbero poltiglia sonora. Loro trasformano in oro il piombo dell’ovvio.

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9. Elisa Ridolfi, Curami l'anima (Squilibri)

Ridolfi è stata (ed è) una delle ambasciatrici del fado in Italia, musica d’autore e di popolo tanto preziosa quanto misteriosamente oggetto di culto solo per una nicchia di ascoltatori, dalle nostre parti. Il fado c'è sempre, e crediamo non la abbandonerà mai, ma qui è una delle componenti di un’opera che offre il talento vero di un’ autrice che scrive testi sorprendenti e profondi, e li affronta con una voce dalla bellezza straniante, terragna e irenica assieme. Ospiti Eugenio Finardi e Jacques Morelenbaum.

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10. Steven Wilson, The Harmony Codex, Virgin

Non avesse fatto il mezzo scivolone di The Future Bites, ci sarebbe stato da credere che il Signor Wilson, oltre all’aspetto algido ed elegante, comprenda anche una parte interna fatta di circuiti elettronici, porte usb e cavi aggrovigliati.

Tra i tanti colpi a segno per l’iperattivo inglese che ha già re-mixato l’universo mondo del rock classico, ora arriva il suo Codice Armonico, che piazza un atout di perfezione art rock tonificante senza finire nelle secche pedisseque di certo neoprog.

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