Tappi per le orecchie e grandi domande per una Biennale Musica insolita

Brian Eno, il clubbing, il suono digitale e molto altro per una Biennale che ha provato a rimuovere un po' di barriere concettuali

Ships di Brian Eno con la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi (prima assoluta, commissione La Biennale di Venezia) Courtesy La Biennale di Venezia ph. Andrea Avezzù
Ships di Brian Eno con la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi (prima assoluta, commissione La Biennale di Venezia) Courtesy La Biennale di Venezia (ph. Andrea Avezzù)
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Sin dall’annuncio del programma, ormai diversi mesi fa, questa Biennale Musica 2023 – Micro-Music – si è presentata come una creatura fascinosamente insolita. 

L’idea di focalizzare l’attenzione sul suono digitale, microfonico, legato all’innovazione tecnologica ha aperto di fatto le porte a tutta una serie di esperienze di matrice popular che negli scorsi vent’anni di Biennale Musica – tranne rare eccezioni e goffe forzature – rimanevano confinate a un “off” spesso poco sensato e che si leggeva come un più o meno convinto “speriamo di attirare dei giovani”.

– Leggi anche: Frank Zappa alla Biennale Musica. Tempo scaduto?

Ci si è quindi accostati a queste lunghe due settimane ognuno col suo viaggio ognuno diverso, con uno stuolo di clubbers diviso tra caccia al biglietto e FOMO per alcuni appuntamenti, ma incurante del resto del programma, una pattuglia di addetti ai lavori di ambito più "classico" pronti a arricciare il naso e una febbrile curiosità complessiva che il “Macro-Meteo” ha provato alcune sere a ricacciare nelle proprie tane.

Ma l’edizione rimane notevole e capace di sollevare parecchie questioni stuzzicanti.

Per provare a darvi conto di quello che sono riuscito a seguire, un’immagine continuava a rimbalzarmi in testa in questi giorni: quella dei tappi per le orecchie, che in molti appuntamenti erano correttamente messi a disposizione del pubblico della Biennale per cautela protettiva.

Tappi

Ho una storia personale con i tappi, una storia che in qualche modo mi ha fatto riflettere: una ventina di anni fa, organizzando il concerto veneziano di Lou Reed con l’ensemble Zeitkratzer, il giorno prima della performance ci viene detto dai musicisti: «avete preso i tappi per il pubblico? Perché le frequenze e i volumi sono tali che se qualcuno è sensibile potrebbe avere dei problemi e protestare, mentre se ci sono i tappi ognuno sceglie se proteggersi o meno».

Non era facile in quei giorni pre-Amazon recuperare in poche ore un numero così elevato di tappi, ma correndo di farmacia in farmacia riusciamo a procurarli, e la cosa strana fu che quasi tutte le persone del pubblico, ma ricordo anche un paio di articoli da parte di importanti giornalisti musicali nazionali, presero questa dei tappi come una provocazione, una sorta di ironico gadget che ricordava la presunta inascoltabilità di Metal Machine Music, il lavoro di Reed messo in scena.

Ma in fondo i tappi nelle ceste fuori dal Teatro alle Tese, ignorati da molti, intascati perché non si sa mai o per gioco o quand’anche usati da altri, sono un elemento interessante: perché non impediscono l’ascolto, ma in qualche modo ne attenuano o modificano la vera natura.

Ed è in questa contraddizione che la liaison dangereuse tra la produzione più accademica e quella di matrice popular o comunque estranea ai meccanismi del riconoscimento istituzionale si gioca. Con le sue impermeabilità di pubblici, lo straniamento contestuale, le aspettative – ma anche in fondo la necessità che ci sia un’idea curatoriale totalmente consapevole a vasto raggio, cosa certo non facile. La stessa Ronchetti, con grande onestà intellettuale, ha delegato alcuni pezzi, o si è affidata in modo aperto all’incanto al proprio istinto da “esterna”.

E se è vero che presentare gli Autechre (un set insolitamente “morbido” il loro, ottimamente governato e sprizzante scintille nere) che hanno 30 anni di carriera alle spalle o un lavoro già visto molte volte anche in Italia, ancorchè splendido, come CBM 8032 AV di Robert Henke è più un riconoscimento dovuto che un’intuizione curatoriale, si tratta pur sempre di proposte da cui chi non è avvezzo a queste lande sonore esce stupito (quando non esce anzitempo e basta).

Non è forse un caso che uno dei lavori più memorabili presenti nel programma si riveli in fondo Glockenbuch IV di Marcus Schmickler (lo avevamo intervistato qui), potentissima architettura sonora che immerge il pubblico in una risemantizzazione dai tratti spesso cupi, ma sempre brillante, dei suoni e dei dati provenienti da campane di chiese veneziane. Non è un caso perché Schmickler ha un nobile passato post-rock (con i lavori a nome Pluramon) e il fatto che ora abbia da qualche anno al proprio fianco istituzioni e risorse di natura più “colta” non toglie alla sua pratica un’urgenza davvero memorabile e riconoscibile.

Glockenbuch IV (Spectre Santa Maria dei Carmini) di Marcus Schmickler - Courtesy La Biennale di Venezia (foto Andrea Avezzù)
Glockenbuch IV (Spectre Santa Maria dei Carmini) di Marcus Schmickler - Courtesy La Biennale di Venezia (foto Andrea Avezzù)

Si è parlato molto, pure troppo, di Brian Eno, un Leone d’Oro ineccepibile (e una medaglia che la Ronchetti può con giusto orgoglio appuntarsi al petto) per il ruolo che il musicista ha avuto in tante pagine fondamentali della musica popolare degli ultimi 50 anni, ma che lo stesso Eno ha provato a demistificare nel suo discorso di ringraziamento, ricordando con la consueta, affascinante, modestia, quanto il contesto, la temperie si sarebbe detto in altri tempi, le relazioni, i colleghi e gli spunti abbiano contribuito all’unicità del suo lavoro.

È stato senza dubbio un concerto da ricordare, quello di Eno con i giovanissimi musicisti e musiciste della Baltic Sea Philharmonic: la rilettura orchestrale di The Ship è luminosa e avvolgente, nonostante l’eccessivo protagonismo performativo del direttore Kristjan Järvi. E c’è spazio anche per qualche brano meno recente, ma dell’obliquità dell’approccio che ha fatto di Eno quello che viene celebrato oggi c’è poco.

Dell’obliquità dell’approccio che ha fatto di Eno quello che viene celebrato oggi c’è poco.

Ci si emoziona – parecchio e in modo genuino – perché vederlo su un palco è già emozione, e perché il Teatro la Fenice immerso in questa liquidità sonora sembra più luccicante che mai, tutto è molto curato... Ma in fondo sono arrangiamenti che non hanno nulla di particolare, e forse anche questa “confezione” così formalizzata (non a caso, in una sorta di garbata “riconoscenza” verso la committenza e la Baltic Sea, che suona anche però un po’ come una sorta di excusatio non petita, Eno ha tenuto più volte a dire che «non era nei suoi piani lavorare con un’orchestra») è qualcosa che restituisce leggermente fuori fuoco la sacrosanta celebrazione.  

Tappi per le orecchie e grandi domande per una Biennale Musica insolita
Ships di Brian Eno con la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi (prima assoluta, commissione La Biennale di Venezia)
Courtesy La Biennale di Venezia (foto Andrea Avezzù)

A partire dalla bella apertura con Morton Subotnick e l’ingegnosa resa di GLYA di Maryanne Amacher, in cui chi ascolta funziona come una sorta di interfaccia neuro-acustica (leggasi a un certo punto si ascoltano delle frequenze generate nelle orecchie), il programma ha trovato le sue proposte più interessanti nella già citata, ma sempre splendida, performance CBM 8032 AV di Robert Henke, in alcune parti della Notte di Sonic Acts, dai toni cupi e taglienti e nel bel lavoro per organo di Wolfgang Mitterer (sul medesimo strumento “doppio” del Conservatorio anche John Zorn si è cimentato, portando con la solita dissacrante attitudine un po’ di pratiche improvvisative nel programma).

Diversi interrogativi sono emersi dalle due Notti affidate a Nero e a Battiti: se nella prima le due ottime performance di Loraine James e Kode9 hanno in qualche modo incarnato quel suono che dall’eredità della rave culture attraversa le inquietudini filosofiche britanniche e la sperimentazione più frammentata, nella seconda – che ha avuto il merito di portare inscena pratiche legate alla Blackness e uno sguardo decisamente più intimo e più legato all’ascolto – si è scontata una inattesa, prolissa staticità da parte di Lamin Fofana, per cui si è arrivati al bellissimo lavoro di Dj/Rupture su Julius Eastman con un po’ di stanchezza.

Loraine James, La Notte di Nero  - Courtesy La Biennale di Venezia / ph. Andrea Avezzù
Loraine James, La Notte di Nero  - Courtesy La Biennale di Venezia (foto Andrea Avezzù) 

Più riuscita, nella serata finale, estatica e meditativa, la performance di Nicolas Becker e Robert Aiki Aubrey Lowe, quasi una seduta aliena di ASMR. Nonostante le numerose richieste, sia la performance degli Autechre che quella di Nero, che portavano dentro la Biennale logiche più proprie al mondo del clubbing, hanno dovuto sottostare a limitazioni di capienza che hanno dato uno straniante senso di sala non diciamo mezza vuota, ma comunque con molti spazi ancora da riempire.

Altro elemento di riflessione interessante, se ci pensate: musiche che nascono in un ambito urbano e che solitamente vengono programmate in situazioni dalle economie fortemente legate allo sbigliettamento, trovano spazio all’interno di un’istituzione finanziata pubblicamente – che rispetta, del tutto correttamente, le più rigorose norme di sicurezza – e quindi diventano involontariamente un po’ elitarie (certo, bastava essere lesti nella prevendita, ma comunque sempre un po’ happy few) e comunque deterritorializzate rispetto al contesto socio-culturale di cui sono espressione.

E alla fine una sensazione che resta forte dopo queste due settimane di Festival è proprio quella di quanto l’interesse da parte di Biennale verso segni che sono stati per decenni ignorati se non schifati da mondo accademico porti alla luce, oltre alla meritoria apertura da parte della direzione artistica, la ancora non facilissima convivenza tra pensieri e pratiche che si sono per troppo tempo ignorati e che rispondono a funzioni molti diverse sul piano sociale e culturale nonostante le profonde connessioni. 

E se l’indagine sul suono digitale, sull’acustica degli spazi, sulle innovazioni tecnologiche (oltre a Henke sviluppatore di Ableton, il Leone d’argento è andato a Miller Puckette sviluppatore di Max, vale a dire i due più diffusi programmi per la produzione e il controllo della musica digitale) è forte, legittimo e in un certo senso solo all’inizio, è come se il contesto sociologico, le logiche di produzione e fruizione legate alle urgenze espressive fossero rimaste un po’ lontane, ovattate da quei tappi per le orecchie che ci hanno accompagnato lungo le serate, magari rimanendo in tasca... Ma… Non si sa mai.

Si esce dunque da queste intense serate negli spazi dell’Arsenale (e non solo, perché sono stati coinvolti anche teatri, Conservatorio e alcuni luoghi meno abituali come il Parco della Bissuola a Mestre con la bella installazione di Paolo Zavagna e Andrea Liberovici) con molti concerti riusciti e molte domande, che è una cosa sempre positiva. E che premia certamente il coraggio di Lucia Ronchetti di avere provato a rimuovere un po’ di inutili barriere concettuali. Un punto di partenza da non accantonare.

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