Alberto Zedda e lo swing di Rossini

Incontro con il direttore d'orchestra che ha diretto la "Petite messe solennelle" in Portogallo

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"La Petite messe solennelle" al Festival Terras sem sombra a Santiago do Cacém (foto FTSS 2016/Alfredo Rocha)

Il festival Terras sem sombra, un festival di musica sacra che si svolge nei paesi e nelle piccole cittadine della bella regione portoghese del Alentejo, ha avuto il suo culmine il 2 aprile scorso con un’emozionante esecuzione della Petite messe solennelle di Rossini diretta da Alberto Zedda nella chiesa madre di Santiago do Cacém gremita di pubblico. L’attaccamento e la partecipazione dei cittadini ai concerti e alle iniziative di questo festival sono una costante, anche perché, data la scarsezza dei fondi, sono le famiglie e la società civile con il loro sostegno a rendere possibile la manifestazione, che è quindi sentita dalla popolazione locale con molta immediatezza. Del resto, proprio la vicinanza con le risorse vive di questa terra e la riscoperta del patrimonio artistico e paesaggistico della regione attraverso la musica e le attività pedagogiche, sono le linee guida che ispirarono nel 2003 la nascita di questo piccolo e particolare festival fondato dallo storico dell’arte José António Falcão, che ancora oggi ne è l’anima. In questo contesto la presenza di Zedda ha attirato una notevole attenzione mediatica, con interviste e servizi diffusi dai principali mezzi di comunicazione portoghesi, ma il suo carattere refrattario allo star system e la convinzione nella forza comunicativa del suo prediletto Rossini, hanno finito per sposarsi alla perfezione con lo spirito locale del festival, suscitando così un giustificato entusiasmo. Ecco il resoconto di questo felice incontro.

Maestro Zedda, questa era la sua prima volta al festival del Alentejo?
«Sì. Tutto è nato da una proposta del mio caro amico Juan Ángel Vela del Campo che nel 2015 è succeduto a Paolo Pinamonti come direttore artistico: mi ha chiesto se avessi voluto partecipare all’edizione di quest’anno, pur sapendo che il festival non ha a disposizione tanti mezzi economici. Sembrava che fossi io a fare un favore a loro, ma adesso dico che è stato il contrario, perché nei giorni che ho passato a Santiago do Cacém ho avuto a che fare con gente meravigliosa, di una generosità straordinaria».

C’è qualcosa di particolare quindi nell’atmosfera che si respira in questa manifestazione?
«Certo, c’è un’aria familiare che viene anche dal fatto che la gente del luogo sostiene con i mezzi che ha a disposizione l’organizzazione dei concerti e degli eventi. Ma soprattutto si percepisce l’idea che l’arte e la cultura fanno parte della vita quotidiana, che sono intrecciate con la quotidianità e aiutano a vivere la vita di ogni giorno, non sono qualcosa di distante e piovuto dall’alto. Per questo l’interesse del festival per la natura, per la scoperta del paesaggio locale con escursioni e approfondimenti fa tutt’uno con la programmazione musicale. Questo clima di partecipazione disinteressata e comunitaria non esclude però la serietà e l’impegno, anzi li rende più facili e giustificati. Perché non si fa niente per l’apparenza, per obbedienza ai precetti della cultura dell’evento cui siamo purtroppo ormai abituati, ma c’è un vero senso di autenticità e condivisione, che è un bene raro oggi. Mi ha stupito ritrovarlo qui, in una regione un po’ periferica, anche se è vero che ci sono altri festival piccoli in cui si realizza: penso al festival wagneriano di Erl in Tirolo, ad alcuni festival inglesi e, con le dovute differenze, anche al nostro festival rossiniano di Pesaro, dove anche i grandi divi si spogliano della loro diffidenza e si lasciano andare all’atmosfera amichevole che vi regna».

Come mai ha scelto la Petite messe solennelle?
«Intanto c’erano delle limitazioni di budget e la versione per pianoforte di quest’opera con quattro giovani solisti e un coro da camera era adatta alla situazione. Poi, quest’opera di Rossini è una miniera di invenzioni, proprio perché non fu composta tutta in una volta, ma raccoglie musiche diversissime scritte in vari momenti, rimaneggiate e assemblate in una messa. Una messa che proprio per questo carattere eterogeneo riesce a rappresentare tutti i tipi di reazione nei confronti della fede: dal dubbio, alla gioia, dalla rivolta, al dogmatismo del credo. C’è dentro tutta l’umanità ed è per questo che è molto più credibile di tante messe che hanno i crismi dell’ufficialità, perché in questa la forza della fede è rappresentata in modo teatrale in tutte le sue varianti, comprese le involuzioni e le contraddizioni. C’è dentro tutto e Rossini non sposa una posizione più di un’altra, nessuna prevale, proprio come nel suo teatro dove egli non si schiera moralisticamente con nessuno, ma guarda tutto dall’alto».

In un certo senso anche Mozart è altrettanto imparziale nel suo teatro, eppure la sua musica è molto diversa, come mai?
«Certo anche Mozart non fa prevalere mai un carattere su un altro, ma a differenza di Rossini egli si identifica in tutti, vi partecipa con più calore umano, mentre più studio Rossini, più mi accorgo che tra la sua musica e la sua vita non c’è relazione, il suo modo di comporre è molto più freddo e, se vogliamo, inumano. Il suo sguardo ha un che di olimpico e impassibile, e chi cercasse nella sua musica chiaroscuri psicologici rimarrebbe deluso, perché al posto c’è una scrittura apparentemente artificiale e astratta, che però una volta riempita di contenuti teatrali e umani, lievita, creando forme espressive dal carattere unico e di una vitalità travolgente. È per questo che il compito dei cantanti è determinante per la riuscita della sua musica, perché spetta all’interprete dare dei connotati a queste note. E inoltre per questa sua qualità, gli è possibile cambiare arie e musiche da un’opera buffa a una seria e viceversa senza che il loro effetto teatrale ne esca sminuito, oppure, gli riesce di ricucire insieme materiale precedentemente composto in modo diverso e altrettanto efficace, come ha fatto con la Petite messe. Per dire, quando dirigo il Comte Ory, non mi capita mai di pensare al Viaggio a Reims, eppure è praticamente la stessa musica».

La Petite messe solennelle è eterogenea anche perché Rossini assorbe influenze di altri compositori o anticipa modi e stili di musiche future: per esempio Schubert, nelle armonie modulanti, Verdi nell’invocazione dell’Agnus Dei, Franck nel labirintico preludio religioso, un tipo di pianismo asciutto e ironico, alla Saint-Säens nel Kyrie. Insomma, come si deve considerare questo lavoro nell’ambito della sua produzione?
«Quel che ci insegna questo lavoro è che nonostante la sua vita ritirata, Rossini era attentissimo a quello che gli accadeva intorno e non perdeva occasione di commentare più o meno ironicamente con la sua musica quel che vedeva attorno a lui. La sua posizione era già quella di un compositore moderno, di un artista distaccato dalla società, e per questo ci sono tanti tratti profetici nelle sue ultime composizioni che sono stati capiti e apprezzati solo nel Novecento. Questo vuol dire anche che la scelta di Rossini di abbandonare le scene operistiche dopo il Guglielmo Tell, non va letta come la reazione di un conservatore, di qualcuno che guardava indietro, ma come di un artista a cui il mondo circostante appariva troppo limitato e che, messosi da parte, ha intuito con la grande intelligenza che possedeva certe reazioni e certi procedimenti che andavano già al di là del romanticismo. Per mettere in luce tutto ciò, la versione da camera della messa, rispetto a quella sinfonica successiva, è migliore? Sicuramente, perché suona più moderna, ma la versione per orchestra è altrettanto bella, seppur diversa. Non bisogna pensare che Rossini orchestrò la messa di malavoglia, tant’è che usò per questa versione la più grande e lussureggiante orchestra che abbia mai usato, più grande ancora che quella del Tell. Certo, inspiegabilmente non ha orchestrato il preludio, ma io credo che lo abbia lasciato da parte perché non c’era ai suoi tempi uno strumento d’orchestra che potesse coprire l’estensione intera del tema del fugato, cosa che può fare oggi il clarinetto basso, che io ho usato nella mia orchestrazione. Nella versione sinfonica, però, ci possono essere dei problemi con le voci, in particolare con il coro, che è scritto in un registro piuttosto ristretto e medio, che non brilla, per cui ha dei problemi a sovrastare la massa orchestrale. Una versione è più “solennelle”, l’altra più “petite”, ed è da preferire se si vogliono apprezzare i dettagli e le folgorazioni con cui procede questo suo linguaggio».

Per questa esecuzione a Santiago do Cacém, ha scelto un coro di neanche venti elementi, il coro da camera El Molino di Madrid, un ensemble non professionistico, un po’ come avvenne in occasione della prima esecuzione domestica nel 1864, dove cantarono studenti del Conservatorio.
«Sì, Rossini scherza sul fatto nella dedica e dice che la sua messa sarà cantata da quattro solisti e otto coristi, cioè dodici come gli apostoli, tra cui però, rassicura, non ci sarà nessun Giuda a stonare. In realtà sappiamo che già alla prima i coristi erano un po’ di più ma non poi tanti. Io ho preferito avere un coro giovane ed entusiasta, la cui forza fosse più nell’espressione spontanea, piuttosto che nello splendore vocale, per accentuare il carattere umano e terreno di questa messa. Per lo stesso motivo ho scelto veramente un armonium, e non un organo positivo che avrebbe avuto un suono più nobile, mentre l’armonium ricorda un po’ il timbro della fisarmonica. E così anche al pianista Josu Okiñena ho chiesto di suonare come se stesse suonando una riduzione per orchestra, non con l’eleganza del pianismo da camera, il che avrebbe trasformato le arie in romanze da salotto. Una specie di orchestra povera che mi ha permesso di ottenere esattamente quello che volevo: una messa non paludata e non vestita con i paramenti ufficiali, ma popolare, gioiosa, piena di swing. E a giudicare dalla attenzione e dal successo del pubblico direi che è riuscito tutto come speravo».

Parlando di swing, anche nella messa il ritmo rossiniano è un elemento fondamentale?
«Importantissimo e modernissimo: nel Kyrie o nella fuga del Gloria, è quasi jazz. C’è un’effervescenza che è il pulsare della vita, un’energia sempre presente che innerva tutta l’opera. Ma il ritmo è l’elemento principale di tutto Rossini, perché è il ritmo che dà vita alle sue costruzioni musicali, composte per accumulazioni di piccoli incisi, e pertanto a rischio di apparire aride se non sono sostenute e animate dal ritmo. Che non va inteso in senso meccanico, ma come un fluido mobile e trascinante. Certo un grande direttore come Abbado, esasperando l’aspetto virtuosistico e impassibile del ritmo rossiniano, riusciva a trascendere la forma musicale, ma non a caso si è limitato al Rossini buffo, in quello serio non si sarebbe potuto avventurare con quell’approccio».

Tornando al concerto, i quattro solisti hanno stupito tutti per la proprietà dello stile: il tenore Sunnyboy Dladla è sudafricano, il baritono Pablo Ruiz e il soprano Isabella Gaudí, spagnoli, l’unica italiana era il mezzo Cecilia Molinari e tutti comunque giovanissimi, nemmeno trentenni. Si può dire che oggi il canto rossiniano venga più naturale che un tempo?

«Bisogna precisare che i quattro giovani cantanti sono tutti passati per l’Accademia Rossiniana di Pesaro, dove hanno avuto modo di imparare quello che io chiamo lo spirito di Rossini, ovvero quella capacità di trasformare l’artificialità in semplicità, di umanizzare il belcanto ideale di questo compositore in teatro e comunicazione. Io li conoscevo già prima e per questo non ho avuto bisogno di molte prove per ottenere quello che volevo. Certamente c’è stato un cambio di gusto nella società e di conseguenza anche nei cantanti. Dopo l’esperienza della pittura astratta, dell’assurdo e di altre correnti novecentesche, siamo oggi più capaci di riconoscere e apprezzare l’aspetto ludico, l’ironia, il nonsense, la follia, lo scetticismo e l’incredulità che rendono così unica la musica di Rossini, e non succede più – o non succede più così spesso – che si ascoltino le sue opere serie aspettandosi di trovarvi lo stesso spirito di Verdi o Donizetti».

Lei risiede da molti anni in Spagna: com’è accolta in questo paese l’opera di Rossini?
«Io trovo che ci sia una fortissima attrazione, anche per il repertorio serio, che ho visto accettare con meno resistenze che in Italia. In parte può essere merito mio perché da quando del ’92 mi sono trasferito a Madrid, grazie anche ad amici come Antonio Moral, Emilio Sagi, lo stesso Juan Ángel Vela del Campo, ho potuto diffondere il verbo rossiniano. Certo la sua musica ha sempre un lato edonistico e brillante che piace, a prescindere dal fatto che chi ascolta capisca o meno quello che c’è dietro. Eppure, se dovunque eseguo senza tagli quella summa del Rossini serio che è la Semiramide (e sono quattro ore di musica) alla fine è sempre un delirio di applausi, ho qualche buon motivo di credere che ormai non solo le sue opere buffe, ma anche quelle serie abbiano qualcosa di importante e attuale da dire».

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