Il linguaggio di sintesi di James Brandon Lewis
Al Jazz Club Ferrara una convincente verifica sulla classe del trentacinquenne James Brandon Lewis.
07 dicembre 2018 • 2 minuti di lettura

Ferrara, Torrione Jazz Club
James Brandon Lewis “No Filter” featuring Anthony Pirog
01/12/2018 - 01/12/2018Un paio di anni fa, sempre al Torrione di Ferrara, ascoltammo James Brandon Lewis e ne avemmo una buona impressione. Il concerto che ora ha tenuto nello stesso club a conclusione del tour europeo ci ha dato l’opportunità di riascoltarlo con una diversa formazione e avere una verifica sull’identità e la qualità della sua musica. Il trio “No Filter”, integrato dal chitarrista Anthony Pirog in qualità di ospite, è in attività da quattro anni circa e prevede un cd in pubblicazione nei primi mesi del 2019.
Nel primo brano ha spiccato prepotentemente un sound pieno e vibrante assieme a uno sviluppo lirico del tema solenne e su tempi medi, che ha richiamato esplicitamente il mondo espressivo dell’ultimo Coltrane. Brandon Lewis sembra così aver pagato subito il giusto tributo a uno dei suoi numi tutelari. Poi hanno preso campo dinamiche più contrastate e tese, progressioni trascinanti e sonorità più sforzate, con un eloquio infervorato da vero preacher attorniato dai suoi fedeli. Alle sue spalle prendeva corpo un accompagnamento di basso elettrico e batteria (Luke Stewart e Warren Trae Crudup) uniforme, matericamente informale, un po’ confuso. Il tutto a configurare un ambito free esasperato, un po’ generico e ancora non decantato.
Di seguito è emerso un fraseggio più staccato su scale melodiche ripetute e su temi di grana popolaresca, quasi replicando la declamazione provocatoria di un rapper. Altrove un’improvvisazione visionaria si è innescata su un pedale di basso africaneggiante. A un certo punto ha fatto capolino la breve citazione di un tema di Coleman, ma molto più spesso è stata evidente la rivisitazione dello spirito di Ayler, altro punto di riferimento imprescindibile. La riproposizione dello spiritual "Sometime I Feel Like a Motherless Child" si è rivestita di ossessive scansioni ritmiche, d’impronta funky.
Più degli altri due partner, funzionali e tonici ma non così autorevoli, il chitarrista ha usufruito di veri e propri spazi solistici; ha esposto con la sua sonorità abrasiva un’eloquenza efficace, un vigore esasperato e volitivo, fornendo un colore acidulo contrastante ma complementare a quello del leader.
Nel percorso composito del concerto ferrarese di James Brandon Lewis, oltre al bellissimo sound del suo tenore, sono risultati del tutto convincenti il puro entusiasmo emotivo e la visione mistica con cui il trentacinquenne sassofonista si è impossessato di alcuni momenti basilari del jazz afroamericano degli ultimi cinquant’anni, per rivisitarli con decisa personalità e tradurli in una proposta attuale di spiccata vitalità. In definitiva quella che James Brandon Lewis ci porta non è una parola di sostanziale innovazione, come trenta-quaranta anni fa prevaleva nel linguaggio di contraltisti quali Henry Threadgill, Steve Coleman e Tim Berne; il suo piuttosto è un linguaggio di sintesi della tradizione nera da cui proviene, ma condotto con una consapevolezza, una fierezza propositiva, una potenza espressiva che non danno adito a dubbi sulla onestà culturale e la validità del suo approccio.