​Dalla tradizione al concetto

Metamorfosi della regia lirica negli ultimi quarant’anni

SN

08 settembre 2025 • 5 minuti di lettura

Romeo Castellucci Salome 2018
Romeo Castellucci Salome 2018

Come sarebbe la “Cena in Emmaus” di Caravaggio senza quel Cristo che parla a tre uomini vestiti in abiti seicenteschi, in quella stanza forse con i mobili dello studio del pittore e con una savonarola sicuramente sconosciuta nella Palestina del I secolo, e un tavolo con pietanze comuni nelle taverne frequentate dal pittore? Tutti anacronismi, certo, necessari però a rendere quella scena sacra più vicina allo spettatore dell'epoca e dunque senza tempo il messaggio evangelico.

Anacronismi che nella pittura sono funzionali all’universalità del messaggio e come tali vengono compresi. Gli stessi anacronismi, però, ancora stentano ad essere del tutto accettati nell’opera, dove troppo spesso si preferisce perpetuare il cliché dello spettacolo fuori dal tempo e soprattutto fuori dalla contemporaneità in nome di un presunto quanto discutibile “rispetto” della volontà dell’autore. Come se al genere operistico fosse concessa l’unica possibilità di una contemplazione esclusivamente museale.

Per lungo tempo alla regia d’opera è assegnata una funzione essenzialmente decorativa, confinata cioè alla gestione dei movimenti scenici e alla ripetizione fedele delle didascalie anche nell’apparato visivo. Nel corso degli ultimi quarant'anni, tuttavia, la regia lirica ha subito una trasformazione profonda, passando da un modello fondato sulla tradizione e sulla presunta fedeltà filologica ad un approccio concettuale, talvolta provocatorio, che ha riscritto il ruolo stesso del regista all'interno dell'opera assegnandogli un rilievo del tutto speciale fra le molte parti coinvolte nella costruzione del progetto scenico.

Damiano Michieletto Gazza Ladra
Damiano Michieletto Gazza Ladra

Nel bene o nel male, negli ultimi quarant’anni la regia ha conquistato il centro del dibattito artistico, in quanto crocevia di linguaggi e provocazioni, che spesso decide il successo o il naufragio di una produzione. E anche in Italia, Paese dove l’opera è nata e, come tale, piuttosto tetragono ai cambiamenti, questa mutazione antropologica si è materializzata in un dibattito combattuto, appassionato, a volte contraddittorio ma inevitabile, nonostante le resistenze di una fazione di pubblico legato a un’idea più tradizionale dello spettacolo d’opera e di impresari poco inclini al rischio. Eppure, bisogna cambiare per non morire e lo spettacolo dal vivo non fa eccezione.

Nella concezione del ruolo della regia il cambiamento ha una data: 31 gennaio 1981. All'Opera di Francoforte va in scena Aida con la regia di Hans Neuenfels. Aida è una donna delle pulizie armata di secchio e spazzolone, Radamès è un manager in maniche di camicia. Il coro degli Egizi è vestito come un pubblico d’opera in abiti da sera e, durante il trionfo, lancia cosce di pollo ai prigionieri etiopi, raffigurati come dei selvaggi. L’intento è chiaro: Neuenfels vuole denunciare il colonialismo e la spettacolarizzazione della guerra e per farlo mette in discussione le convenzioni teatrali e sociali dell'epoca, abbandonando l'estetica esotica tradizionale per abbracciare una lettura critica e contemporanea dell'opera di Verdi. Il risultato è uno dei più grandi scandali nella storia dell'opera tedesca del dopoguerra. Non che fossero mancati tentativi precedenti di allontanarsi dalla lettera del libretto (si veda ad esempio il Ring del centenario di Bayreuth di Patrice Chéreau, altro scandalo epocale nella roccaforte del wagnerismo più estremo) ma questa Aida rappresenta un vero punto di svolta nel modo di concepire la regia lirica destinato a fare scuola nei teatri d’opera d’oltralpe nei decenni successivi fino a farsi quasi norma, aprendo la strada a spettacoli via via più audaci e concettuali. È nato il Regietheater, ovvero il “teatro di regia”, che pone il regista al centro dell’interpretazione: non è più semplice traduttore in immagini del libretto, ma autore a tutti gli effetti, con il diritto – e il dovere – di attualizzare, reinterpretare, persino stravolgere la drammaturgia originaria.

In quegli stessi anni, l’Italia è ancora fortemente ancorata a un’idea tradizionalista dell’opera. Le regie sono spesso affidate a grandi decoratori come Franco Zeffirelli: domina un’estetica sontuosa, pittorica, spesso legata a una presunta fedeltà al libretto e al tempo storico dell’azione. I personaggi si muovono dentro quadri visivi costruiti con grande maestria, ma con poche libertà interpretative. Qualche eccezione però c’è. Una si chiama Luca Ronconi, che alla fine degli anni ’70 con un celebre Nabucco al Maggio Musicale Fiorentino con le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi e la direzione musicale di Riccardo Muti, inaugura una versione meno radicale e tutta italiana del Regietheater, capace di coniugare un approccio più concettuale alla drammaturgia originale con la sontuosità tipica dello spettacolo lirico, un esempio tuttavia seguito da pochi. In Italia alle regie troppo creative si continua a guardare con sospetto quando non aperta insofferenza.

Aida Zeffirelli
Aida Zeffirelli

La porta dell’innovazione è ormai aperta e dagli anni Novanta emerge una nuova generazione di registi che, rompendo con l'iconografia classica, portano in scena visioni personali, spesso con forti connotazioni politiche o sociali che trasformano il palcoscenico in un luogo di riflessione critica oltre che estetica. La scena lirica si apre a nuovi sguardi, contaminazioni e linguaggi. Le barriere tra generi si sfaldano: registi di prosa o di cinema, coreografi, artisti visivi e performer si cimentano con l’opera lirica. Sempre di più la regia diventa un gesto interpretativo e le ambientazioni “come da libretto” lasciano il posto a contesti urbani contemporanei, quando non a un futuro distopico o magari a un surrealismo di ispirazione psicoanalitica. Conseguenza del predominio del concetto registico è la libertà (che a volte si fa arbitrio) sul materiale originale: il libretto viene talvolta scomposto, attualizzato, quando non ibridato con l’inserimento di nuovi testi. La musica però non si tocca.

Questa mutazione genetica del ruolo della regia nello spettacolo d’opera non è priva di tensioni, soprattutto nel nostro paese, in cui l’opera resta un patrimonio “identitario” e ogni deviazione dalla tradizione solleva reazioni molto emotive di totale rifiuto nei confronti di riletture considerate troppo radicali. Particolarmente invisi alla componente più tradizionale della melomania italica sono due registi, entrambi rappresentanti di due concezioni originali del Regietheater “alla tedesca” ed entrambi celebrati a livello internazionale per l’originalità e la forza dei loro spettacoli: Damiano Michieletto e Romeo Castellucci. Il primo è artefice di un teatro aperto alla spettacolarità e dal forte segno visivo (anche grazie alla genialità del suo simbiotico scenografo Paolo Fantin), dinamico e provocatorio ma con misura. Il secondo è regista dall’approccio radicale ai limiti della brutalità e autore di spettacoli di bellezza tagliente e spesso oscura.

Dal teatro delle pose (o del concerto in costume) al laboratorio delle idee, la regia lirica ha compiuto un viaggio affascinante e tormentato in questi ultimi quarant’anni. Ha rotto tabù consolidati, aperto porte, subito fischi e contestazioni anche violente ma anche conquistato platee. Oggi, più che mai, il lavoro del regista è chiamato a essere ponte tra il patrimonio e l’innovazione, tra il rito e la ricerca. Perché, come scrisse Luca Ronconi: “Il teatro non è perentorio ma aleatorio, è una cosa e insieme tante altre cose possibili.”