Rivelazione Hong Kong Philharmonic

Unica tappa italiana della tournée europea dell’orchestra, che celebra il suo mezzo secolo di vita

Hong Kong Philharmonic Orchestra
Hong Kong Philharmonic Orchestra
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Hong Kong Philharmonic Orchestra
05 Marzo 2024

La Hong Kong Philharmonic Orchestra (Hk Phil) è stata fondata nel 1974 e celebra dunque il suo cinquantesimo anniversario, ma si può far risalire la sua storia ancora più indietro, quando si chiamava Sino-British Orchestra, fondata nel 1947 e diretta dal 1953 al 1968 da Arrigo Foa, un italiano sconosciuto in Italia.

Per celebrare il suo anniversario l’orchestra sta ora compiendo una tournée in vari stati europei, che ha incluso una tappa a Roma, precisamente all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ha fama di essere un’orchestra eccellente, una delle migliori dell’estremo oriente: ne è una garanzia anche il suo direttore musicale Jaap van Zweden, che ricopre analogo incarico anche alla New York Philharmonic (ma lascerà entrambe le orchestre alla fine di questa stagione, per passare alla guida della Seul Philharmonic e dell’Orchestre Philharmonique de Radio France).

Quel che si ascolta conferma le attese. Il concerto si apre con Asterismal Dance,  commissionata per quest’occasione al trentottenne Daniel Lo Ting-cheu, uno dei più interessanti compositori di Hong Kong. Questo brano piuttosto breve usa sempre lo stesso materiale musicale, facendolo passare attraverso improvvisi e bruschi cambi di forma, stile e carattere, che spetta ad ogni singolo ascoltatore aggregare, così come le stelle - spiega il compositore - sparse nel cosmo sono state unite a formare costellazioni dotate di una forma e di un significato. La struttura così particolare, la scrittura sostanzialmente tradizionale, i colori sgargianti ma tendenti al cupo e l’impulso ritmico hanno assicurato un bel successo a questa interessante composizione.

Si proseguiva con la Rapsodia su un tema di Paganini op. 43  per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, terz’ultima opera del suo ristretto catalogo. Pianista e direttore ne offrono una lettura piuttosto personale ma nient’affatto arbitraria, che sembra tener conto dell’epoca in cui la Rapsodia è stata scritta, il 1934, e avvicina Rachmaninov ad un altro russo emigrato in America, Igor Stravinskij, che in quel periodo dominava il panorama musicale internazionale (… ma i due non si amavano …). Van Zveden alleggerisce l’orchestrazione rispetto alle opere più popolari di Rachmaninov, scritte tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e fa emergere da quel denso impasto le singole sezioni dell’orchestra, rendendola più limpida e anche più asciutta, e dandole ritmi più scanditi e perfino angolosi. Il ventiseienne francese Alexandre Kantorow, star nascente del pianismo, domina le difficolta virtuosistiche di questo brano con facilità e leggerezza, senza affondare troppo i tasti e abusare del pedale, così da mettere nitidamente in rilievo i ritmi e la varietà di colori, in perfetta sintonia col direttore. Ne vengono particolarmente valorizzate la delicatezza della dodicesima variazione (un minuetto) e soprattutto l’ampia ed effusa cantabilità della diciottesima, l’unica in tempo lento, una vera meraviglia. Poi è un fuoco d’artificio fino alla fine, con quattro variazioni in tempo sempre più veloce, che culminano nella variazione finale, il cui attacco brillante viene interrotto dal tema del Dies irae,  che conclude la Rapsodia con un tocco di tragico pessimismo ma anche in modo un po’ teatrale. Gli applausi calorosi hanno convinto Kantorow a concedere un bis, il secondo movimento (Lento)  della prima Sonata di Rachmaninov.

La Sinfonia n. 1 “Il Titano” di Mahler ha concluso il concerto, con un trionfo per Zveden. Scavando nella partitura e restituendone tutta la complessità musicale, con un bilanciamento ideale di analisi razionale e partecipazione emotiva, la sua interpretazione approfondisce tutta la ricchezza di contrasti di questa musica, che già contiene tutto il Mahler futuro. Ne ha esaltato non soltanto la complessità ma anche le pagine più disarmantemente semplici: si pensi all’introduzione lenta, con i fiati che imitano il canto degli uccelli dell’alba sullo sfondo del pianissimo (con tre p) degli archi, e all’inizio del terzo movimento, con il ritmo scandito dai timpani su cui si inseriscono prima il contrabbasso, poi gradualmente gli altri strumenti più cupi dell’orchestra, finché questo corteo funebre viene interrotto dalla voce acuta, nasale e beffarda dell’oboe. Raramente questi momenti così semplici sono risultati così carichi di suggestioni.

 

All’estremo opposto Van Zveden domina il lunghissimo e complesso movimento finale, che si apre con il violento “grido di un cuore ferito”, a cui il direttore olandese dà un'immediatezza istintiva, che viene veramente dal cuore, senza che appaia una studiata esibizione orchestrale di tipo straussiano. Gli sconvolgimenti di questo movimento erano più che mai “tempestosamente agitati”, come da indicazione di Mahler, ma anche i momenti più tranquilli hanno ricevuto una grande attenzione. La travolgente apoteosi finale, con la teatrale entrata in scena dei dieci corni in piedi, per una conclusione volutamente "popolare" e aproblematica è stata un’apoteosi anche per il direttore e l’orchestra, costretti a furor di popolo a concedere un bis, la Danza slava op. 46 n. 8  di Dvorak, un furiant.

 

Vorrei aggiungere un lungo post scriptum. Come nelle orchestre occidentali suonano molti musicisti dell’estremo oriente, così in quest’orchestra sono molti i musicisti occidentali. I violinisti sono pressoché tutti cinesi, ma proseguendo nella lettura dell’organico orchestrale ci si accorge che gli occidentali progressivamente aumentano e diventano la maggioranza nei contrabbassi e negli strumenti a fiato. Questo compresenza è spesso un arricchimento ma in questo caso specifico si verifica - certamente per motivi che non hanno nulla a che vedere con la razza ma con la cultura e la formazione musicale - una sorta di divisione dell’orchestra in due parti, che non si amalgamano perfettamente. I violini sono ottimi, precisi e duttili, con un suono puro e cristallino, ma d’altra parte hanno un volume piuttosto debole e sembrano un po’ freddi, almeno a noi italiani, soprattutto perché usano poco vibrato. Il problema è che nei tutti orchestrali fiati timpani e contrabbassi rischiano di soverchiare la restante parte degli archi: l’esatto contrario di quello può succedere nelle nostre orchestre. Insomma le due parti dell’orchestra sono entrambe ottime ma sembrano appartenere a due orchestre diverse (si prova un’impressione simile anche con la superba Chicago Symphony). Ma probabilmente questo problema deriva almeno in parte dall’acustica della vastissima sala, che esige una particolare potenza di suono.

 

 

   

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