Zelmira apre il ROF

Pesaro: un capolavoro rossiniano affascinante e difficile

Zelmira (Foto Amati Bacciardi)
Zelmira (Foto Amati Bacciardi)
Recensione
classica
Pesaro, Auditorium Scavolini
Zelmira
10 Agosto 2025 - 19 Agosto 2025

Il Rossini Opera Festival ha inaugurato la sua quarantaseiesima edizione con Zelmira, un capolavoro tra i capolavori della produzione “seria” di Rossini, che però ancora oggi fatica ad essere riconosciuto come tale. Rossini scrisse questo “dramma per musica” per il San Carlo di Napoli, il teatro più importante nell’Italia d’allora, e quindi poteva contare sui migliori cantanti, la migliore orchestra e il miglior coro del paese del belcanto. Inoltre, mentre nel 1822 lavorava a questa sua ultima opera seria “napoletana”, già sapeva che poco dopo sarebbe stata rappresentata a Vienna, che allora come oggi era una delle principali piazze dell’opera italiana, dove erano stati creati capolavori firmati da Gluck e Mozart, che avevano aperto nuovi orizzonti: verosimilmente Rossini ne tenne conto, come indicano alcuni aspetti nuovi e audaci della Zelmira.

Negli anni immediatamente seguenti alle recite napoletane e viennesi si ebbero alcune riprese in Italia e anche a Parigi e Londra. Poi seguì oltre un secolo di totale oblio, che oggi interpretiamo non come una debolezza di quest’opera ma come una colpevole “distrazione” dei nostri antenati. Risale al 1965 una prima ripresa moderna al Teatro di San Carlo, che, come si usava allora, era abbondantemente tagliata ed affidata ad interpreti inevitabilmente estranei allo stile rossiniano. Invece l’edizione dell’Opera di Roma nel 1989 deve essere albo signanda lapillo, perché fu il più fedele possibile alla versione originale - in assenza dell’edizione critica ci si attenne alle indicazioni del rossiniano doc Philip Gossett - e gli interpreti - Evelino Pidò sul podio, Cecilia Gasdia, Chris Merritt e Rockwell Blake in palcoscenico – avevano ormai piena coscienza dello stile rossiniano. In quel lontano 1989 il festival rossiniano di Pesaro non aveva ancora rivolto la sua attenzione a quest’opera eppure la Zelmira romana è stata paradossalmente uno dei più bei successi del ROF, perché non sarebbe stata possibile senza quel che il ROF andava predicando del 1980. 

Veniamo al dunque. Calixto Bieito, regista e anche corresponsabile delle scene insieme a Barbora Horakhova, ha dato una sua personale soluzione al problema di uno spazio teatrale piuttosto ostico qual è l’Auditorium Scavolini, che era e resta, nonostante alcune modifiche, un palazzetto dello sport creato per la pallacanestro. Al centro dell’ampio rettangolo che si apre al centro dei gradini riservati al pubblico Bieito ha installato una pedana vitrea illuminata dal basso, lunga ben trenta metri e larga dodici, in cui erano ricavate la buca per l’orchestra e alcune buche più piccole, tra cui una piena di polvere nera e un’altra piena di acqua, che simboleggiavano rispettivamente il male e la purificazione… ma è soltanto una mia ipotesi, poiché il significato di questi e tanti altri dettagli dello spettacolo era piuttosto oscuro. Per la maggior parte del tempo la recitazione era piuttosto sobria, con i personaggi che si limitavano ad andare avanti e indietro su quella pedana vuota. Ma per tener fede alla sua nomea Bieito ha cosparso lo spettacolo di varie trovate, talvolta inoffensive e talaltra fastidiose e irritanti, quindi atte a suscitare un succés de scandale. Parte del pubblico ha abboccato, dandogli all’ex enfant terrible della regia operistica la soddisfazione di essere fischiato. 

La reazione migliore era invece cercare di non farsi distrarre troppo da quel che si vedeva in scena e concentrarsi sulla musica. Ma anche qui Bieito ha lasciato il segno, perché collocare gli interpreti su quella enorme pedana al centro dell’ex palazzetto dello sport aveva come inevitabile conseguenza che nei pezzi d’insieme i cantanti spesso contavano a decine di metri di distanza l’uno dall’altro e che inevitabilmente davano le spalle ora a un settore del pubblico e ora all’altro: il risultato è facilmente immaginabile. Alle discontinue condizioni acustiche si aggiungeva in alcuni casi la discontinua prestazione degli interpreti. Dopo l’Ermione dello scorso anno Anastasia Bartoli ha confermato il suo forte temperamento, che però in Rossini non basta, anzi può diventare un fattore negativo se non ben incanalato secondo le regole del belcanto. Dare un rilievo esagerato a certe parole e a certe note con brusche escursioni dinamiche non va bene in Verdi e tanto meno in Rossini, che non sottolinea mai in modo melodrammatico una singola parola ma punta sul fascino incorrotto dell’arco melodico. La Bartoli però si riscattava nei momenti più lirici quando - pur non avendo un’impostazione vocale di marca belcantistica - cercava un cantabile morbido e ben “legato”, ottenendo un’espressività molto più intensa che con i suoni bistrati da lei sfoggiati soprattutto nelle prime scene. 

Purtroppo Enea Scala nella parte di Antenore aumentava all’ennesima potenza le scelte discutibili della Bartoli, non facendo mai sentire una frase neanche una parola “legate” ma ricorrendo ad una serie di “forte” sgraziati, improvvisi e ingiustificati, totalmente estranei allo stile rossiniano. Che abbia un buon volume di voce non aiutava, anzi peggiorava la situazione, perché il timbro è piuttosto aspro. Vero è che Antenore è il “cattivo” della situazione ma questo non giustifica affatto un tale tipo di vocalità, che non ha nulla che vedere con il bel canto, ben noto invece all’altro tenore - l’americano Lawrence Brownlee, che interpretava Ilo: la sua linea del canto era pura e omogenea, le fioriture fluide e impeccabili, gli acuti e i sovracuti nitidi e perfettamente intonati (è comprensibile che talvolta lasciassero trasparire un’ombra di sforzo, perché la parte è veramente impervia). Anche l’altra non italiana tra i quattro protagonisti - la svizzera Marina Viotti, che interpretava Emma - ha dimostrato di conoscere bene lo stile rossiniano, meglio degli italiani stessi. A lei e a Brownlee sono andati gli appalusi più calorosi del pubblico. Nel suo duetto con Zelmira ha perfino indotto la Bartoli a seguirla nel rendere la melodia giustamente fluente, soave e perfettamente calibrata. 

Leucippo sarebbe un personaggio secondario ma Bieito ne fa un altro protagonista, sempre presente in scena a manovrare come una marionetta un Antenore debole e nevrotico: Gianluca Margheri se ne è fatto egregiamente carico. In teoria avrebbe maggior rilievo Polidoro, messo però in secondo piano dalla regia e cantato in modo un po’ pallido da Marko Mimica, che abbiamo ascoltato in prove migliori. Paolo Nevi e Shi Zong erano adeguati alle brevissime apparizioni di Eacide e del Gran Sacerdote.

Giacomo Sagripanti assorbito dal problema di mandare insieme  solisti, coro e orchestra, sparsi spesso a decine di metri da lui, spesso anche alle sue spalle, ha risolto il problema facendo suonare sempre forte coro e orchestra, rispettivamente l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e il Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno (maestro del coro Pasquale Veleno). È comprensibile che abbia trascurato il vero ruolo del direttore, cioè dare unità e credibilità stilistica alle prestazioni dei vari cantanti (ovviamente sappiamo che è più facile a dirsi che a farsi) e fare dell’orchestra l’elemento che amalgama i vari protagonisti e li traina verso un sviluppo drammatico forte e coerente. 

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