Al ROF Isabella è una drag queen
La trovata di Rosetta Cucchi aggiunge follia alla follia dell'Italiana in Algeri

Siamo ad Algeri, non ai primi dell’Ottocento ma in anni recenti (alcuni personaggi ancora indossano tunica e turbante, per lasciare un pizzico di colore arabo all’ambientazione) e Mustafà è il capo della polizia. Non è un paese propriamente democratico e infatti i trans non sono accettati e cinque di loro vengono presi in una retata e portati in guardina. Però… però… alcuni poliziotti si chiudono in cella con loro e si immagina facilmente a qual fine. Per non parlare del loro capo, che non è molto sensibile al fascino femminile - infatti il libretto dice chiaramente che si è stufato della moglie e la regia aggiunge che respinge ripetutamente le insistenti avances di alcune odalische in versione moderna - ma perde subito la testa per la più vistosa di queste cinque drag queen, che altri non è che la protagonista dell’Italiana in Algeri, che si fa chiamare Isabella ma chiaramente è un nome d’arte. E al fascino di questa Isabella non sfuggono, come da copione, neanche Lindoro e Taddeo.
C’era proprio bisogno di una Isabella drag queen? Certamente Gioachino Rossini e il suo librettista Angelo Anelli non ci avevano pensato – e se ci avessero pensato non avrebbero mai potuto portare in scena dei trans – ma la bizzarra idea della regista Rosetta Cucchi non tradisce lo spirito di questo dramma giocoso. Il plot viene sostanzialmente rispettato e queste cinque scatenate drag queen con i loro abiti sgargianti creati dalla fantasia della costumista Claudia Pernigotti e i loro trucchi esagerati aggiungono un pizzico di follia in più ad una vicenda che è un ininterrotto fuoco d’artificio di situazioni improbabili, sconclusionate, esilaranti. Il loro compito è far ridere, quindi è comprensibile che vengano rappresentate in modo estremamente caricaturale e non avrebbe senso obiettare che questo sia politicamente scorretto, perché siamo in un’opera buffa e anche gli altri personaggi sono messi in ridicolo.
Ci sono però due pericoli in agguato. Da una parte una Isabella trans potrebbe non bastare a mantenere viva la comicità per tutta la durata dell’opera, ma lo spettacolo è un fuoco di fila di trovate divertenti e mantiene un ritmo scatenato dall’inizio alla fine, grazie anche alla recitazione di cantanti, coro e comparse, sempre vivacissima e curata in ogni minimo dettaglio. L’altro pericolo è che tutto diventi eccessivo, eccessiva la recitazione caricaturale delle drag queen ed eccessiva la confusione in palcoscenico: si sta sempre al limite e secondo alcuni il confine viene superato più volte, secondo altri no. Certo è che i momenti seri e riflessivi di quest’opera - “Cruda sorte”, “Pensa alla patria” - ne soffrono non poco.
La protagonista è una rossiniana di categoria super quale Daniela Barcellona, che dopo aver interpretato tanti personaggi maschili affidati alla voce di contralto - Tancredi, Malcolm, Arsace e altri ancora - questa volta è impegnata in un travestimento ancora più intricato, una donna che finge di essere un uomo che finge di essere una donna. E ci riesce benissimo, rivelando capacità attoriali sopraffine e una vis comica irresistibile, che non sospettavamo. E ha ribadito la sua altissima classe di cantante rossiniana, non incrinata da alcune note che non hanno più la pienezza d’un tempo.
Dei tre uomini innamorati di lei - anzi di lui - è Lindoro ad avere alla fine la meglio, ma proprio lui è il più pallido, perché è un personaggio troppo serio per inserirsi nel folle meccanismo scenico e perché il tenore canadese Josh Lovell ha un timbro limpido e luminoso ma qualche limite sia tecnico sia d’estensione nel registro acuto. Quanto a Mustafà, viene alla fine beffato ma ha almeno la soddisfazione di essere interpretato in modo eccellente da Giorgi Manoshvili, che generalmente interpreta personaggi “seri” ma si rivela adattissimo a questo Bey d’Algeri, che è ridicolo proprio perché pretenderebbe di apparire serio e autorevole. Appena due mesi Misha Kiria era stato un irresistibile nella parte di Taddeo a Roma ma ora, per adeguarsi alla regia, propone questo stesso personaggio in modo totalmente diverso e forse meno riuscito: comunque ha confermato le sue notevoli doti di cantante e d’attore. Haly era Gurgen Bayan: da incorniciare la sua aria “Le femmine d’Italia”. Completavano adeguatamente la compagnia Vittoriana De Amicis (Elvira) e Andrea Niño (Zulma).
Dirigeva Dmitry Korchak. Esiste un Korchak tenore rossiniano (lo si è ascoltato varie volte al ROF, dove canterà anche nei prossimi giorni), un Korchak tenore wagneriano (lo si potrà ascoltare nel Lohengrin che a novembre inaugurerà la stagione dell’Opera di Roma) e infine un terzo Korchak, che sta tentando la via del direttore d’orchestra. Difficile riuscire a far bene tante cose diverse e infatti come direttore d’orchestra Korchak è alquanto deludente. Con l’orchestra proprio non si trova a suo agio: le dinamiche si attestano su un forte quasi perpetuo, senza sfumature, e molti gustosi dettagli dell’orchestrazione rossiniana vanno perduti. In genere non offre stimoli e idee all’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, che abbiamo sentito suonare molto meglio in altre occasioni. Il Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno - il cui maestro è Pasqualino Veleno - è ormai un pilastro del festival e i suoi elementi (in quest’opera è impegnata la sola sezione maschile) cantano e recitano benissimo.
Le risate durante lo spettacolo e gli applausi alla fine hanno dimostrato che gli spettatori si sono divertiti, con qualche eccezione.
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