Le regie del Festival Verdi

A Parma: Jérusalem, Falstaff e lo Stiffelio di Graham Vick

Stiffelio Teatro Verdi Vick
Recensione
classica
Teatro Verdi, Parma
Festival Verdi

Dopo diverse prove, ripensamenti e revisioni susseguite negli ultimi anni – in tempi recenti è almeno dalle celebrazioni del 2001 che Parma sta cercando di dar forma a una manifestazione dedicata al Cigno di Busseto – pare che il Festival Verdi abbia finalmente trovato una propria identità, sia dal punto di vista del contenitore – Parma e il suo territorio hanno iniziato infatti a condividere attivamente le diverse iniziative che in questo mese di ottobre costituiscono l’offerta di una tipica “formula festival” – sia da quello del contenuto, grazie a una programmazione che offre una miscela di titoli verdiani celebri e altri meno frequentati.

Detto questo, parliamo delle opere proposte in questo cartellone 2017, partendo dalla prima, scelta per aprire ufficialmente giovedì scorso il festival, una rara – soprattutto per questo teatro che ne ricorda l’unica esecuzione nel 1986 – Jérusalem” che è andata in scena al Teatro Regio con la regia, scene e costumi di Hugo De Ana, personalità che con il suo segno ha caratterizzato una produzione che vedeva impegnati sul versante musicale Daniele Callegari alla guida dell’orchestra Filarmonica Arturo Toscanini, il coro del Regio (come di consueto ben preparato da Martino Faggiani) e le voci – tra i ruoli principali – di Ramon Vargas (Gaston), Pablo Gàlvez (Conte di Tolosa), Michele Pertusi (Roger), Annick Massis (Hélène) e Valentina Boi (Isaure). La lettura di De Ana si è confermata nel suo gusto barocco-postmoderno, nutrita di rimandi storico-medievali e simbolico-religiosi ora affiancati, ora sovrapposti nel susseguirsi di proiezioni ed effetti visivi che hanno accompagnato fin dalle prime note la rappresentazione. Un uso di immagini e proiezioni che hanno richiamato – tanto inaspettate quanto irresistibili, almeno per chi scrive – curiose reminiscenze cinematografiche, come nel caso dei “titoli di testa” dove, durante l’ouverture, sullo schermo le lettere proiettate cadevano a comporre il discorso tenuto da Papa Urbano II a Clermont come le cifre del codice di Matrix, oppure il passaggio all’atto secondo dove per ricreare il deserto attorno a Ramla è piovuta la sabbia dal cielo, sparpagliata poi da figuranti avvolti in tuniche, simili ai Jawa, creature dei deserti di Tatooine, pianeta di origine della dinastia Skywalker di Guerre Stellari. Al di là di queste personali divagazioni, resta il fatto che De Ana con la sua regia – statica sui movimenti dei personaggi e coro in scena, e a tratti ridondante di simboli e immagini sovrapposte – ha mantenuto viva l’attenzione lungo una narrazione che, se in “Jérusalem” è più snella rispetto all’originale fonte de “I lombardi alla prima crociata”, riamane comunque impegnativa. Sul palcoscenico la voce e l’efficacia interpretativa di Pertusi hanno monopolizzato il dato musicale, completato dall’impegno della Massis e dalla generosità un poco affaticata di Vargas, scortati dall’andamento non proprio omogeneo dell’orchestra guidata da Callegari.

 

La seconda “prima” che abbiamo seguito è stata lo “Stiffelio” per deambulanti di Graham Vick, allestito al Teatro Farnese, gioiello seicentesco scelto da festival parmigiano come luogo di sperimentazione e, in questo senso, tenuto a battesimo lo scorso anno dalla “Giovanna D’Arco” di Boddeke-Greenaway. Diciamo subito che lo spettacolo ha funzionato: le due ore e mezza circa di durata è trascorsa immersi nell’azione scenica, ospitata al centro di questa sorta di catino ligneo le cui scalinate rappresentavano sia supporti per manifesti inneggianti la famiglia naturale sia spazi occupati ora dai personaggi dell’opera verdiana ora dai coristi. Una soluzione che ha portato lo spettatore, in piedi per tutto il tempo, vicinissimo all’azione e ai suoi protagonisti, con conseguente amplificazione del coinvolgimento emotivo e quindi dell’efficacia rappresentativa. Il corista che, inaspettatamente accanto a te, inizia a cantare, un altro personaggio che ti passa accanto, ti guarda e ti abbraccia, un prete (cioè, un attore vestito da prete) che di chiede di muoverti e “circolare” – con un piglio più efficace di un vigile che dirige il traffico – perché stanno spostando la piattaforma dove sta cantando Lina, sono solo alcune delle situazioni in cui si può trovare lo spettatore. Situazioni che possono essere diverse per ogni componente di un pubblico che è chiamato a vivere, oltre che un esercizio collettivo – per quanto circoscritto – come quello del teatro “tradizionale”, anche un’esperienza personale, da condividere, “socializzare” alla maniera odierna attraverso quello smartphone ormai diventato appendice irrinunciabile per testimoniare ogni evento. Un quadro complesso, dinamico e multiforme che l’efficace regia di Vick ha saputo valorizzare ed esaltare coniugando i caratteri di questa dimensione con le potenzialità drammaturgiche del lavoro verdiano, significativamente rivolto alla sfera personale e, se vogliamo, psicologica dei personaggi. Altro aspetto è quello musicale, che ha visto tutti i musicisti coinvolti trascinati nel complesso impegno di suonare e cantare a volte anche senza vedersi, ognuno rivolto ad angoli diversi di uno spazio in continuo movimento. Un impegno che è stato portato a termine con encomiabile abilità, a partire dal direttore Guillermo Garcia Calvo, unico punto fermo – nel senso di stabile, inchiodato al suo posto – assieme alla sua orchestra del teatro comunale di Bologna, in uno spazio in continuo cambiamento, capace tenere le fila di un discorso che ha subito inevitabilmente qualche sfilacciamento. In questo contesto sono emerse come molto intense le interpretazioni di Luciano Ganci (Stiffelio), Maria Katzarava (Lina), Francesco Landolfi (Stankar), e degli altri cantanti coinvolti. Lasciando a margine la forzatura rappresentata dal parallelo tra la comunità protestante di inizio Ottocento del libretto e gli attuali movimenti no-gender – che, ad essere sinceri, ci è parsa più un cavalcare l’onda della cronaca, che un’organica esigenza drammaturgica – come abbiamo detto lo spettacolo ha funzionato, ma non si è trattato di “opera”, non è stato allestito lo “Stiffelio” di Verdi, ma una rappresentazione di teatro musicale basata sullo “Stiffelio” di Verdi. Niente di male, anzi, queste sono ottime soluzioni per offrire punti di vista “altri” sul catalogo operistico, letture non tanto nuove – qui ci risparmiamo l’elenco dei déjà vu – quanto originali, insolite, adatte anche ad attrarre nuovo pubblico verso un repertorio che ha disperatamente bisogno di un ricambio e un rinnovamento di spettatori.

All’opera vera e propria si è tornati con Falstaff che ha visto sul palcoscenico del Regio Roberto De Candia nel ruolo protagonista, affiancato, tra gli altri, da Giorgio Caoduro (Ford), Juan Francisco Gatell (Feton), Gregory Bonfatti (Dott. Cajus), Amarilli Nizza (Alice), Damiana Mizzi (Nannetta), Sonia Prina (Mrs. Quickly) e Jurgita Adamontye (Meg). L’ultimo lavoro verdiano è stato proposto attraverso la lettura attualizzante della regia di Jacopo Spirei, che ha portato la vicenda in una dimensione contemporanea nella quale il giuoco di inganni ordito alle considerevoli spalle del vecchio Sir John si è snodato in ambienti quotidianamente borghesi. Il funzionale apparato scenico, favolistico quel tanto che basta per astrarre un’ambientazione che poteva risultare banale, ha fatto da sfondo alle divertite e divertenti vicissitudini dei personaggi, sciolte in una narrazione musicale gestita con passo adeguato ma non sempre brillante da Riccardo Frizza alla guida della Filarmonica Toscanini. De Candia ha gestito il personaggio protagonista con buona consapevolezza, condividendo l’efficacia interpretativa con gli altri artisti impegnati.

Le tre “prime” hanno raccolto un buon successo – entusiasmo per quanto riguarda lo “Stiffelio” di Vick – da parte di un pubblico che, a quanto pare, non è più così tradizionalista come una volta (e questo non è per forza un male), e che ha saputo apprezzare la nuova natura di un festival dal segno più registico che musicale, almeno per quanto riguarda le produzioni operistiche che abbiamo seguito in questa edizione.

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