La coincidenza mi aveva colpito: gli ultraottantenni Sly Stone e Brian Wilson se ne sono andati ad appena 48 ore di distanza l’uno dall’altro. Da allora mi ronzava nella testa il pensiero che quel doppio lutto potesse contenere un significato nascosto: perciò ho cominciato a compulsare l’accaduto in cerca di un senso, come si fa esaminando i fondi del caffè o gli esiti della consultazione dell’I-Ching. Che cosa accomunava i due?
Che cosa accomunava Sly Stone e Brian Wilson?
Sul piano dell’ovvietà, è presto detto: sono stati giganti della musica, capaci di indirizzare il corso degli eventi fornendo ispirazione a più generazioni, oltre a riscuotere considerevole successo commerciale. Ma per questo pagarono dazio, come degli Icaro saliti in volo ad altitudini rischiose, da dove finirono per precipitare rovinosamente.
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Lo spiritual profano di I Want to Take You Higher fu il culmine dell’esibizione di Sly and the Family Stone sul palco di Woodstock: una messinscena fantasmagorica con abiti da era dell’Aquario, acconciature afro e coreografie da Broadway. All’apogeo del 1969 seguì tuttavia il caos: intossicato da un ego ipertrofico e dall’abuso di stupefacenti, Sly si estraniò dalla band e in un habitat paranoico – sovrano di una corte dei miracoli popolata da spacciatori, guardie del corpo e magnaccia – concepì l’epica distopia di There’s a Riot Goin’ On, epigrafe lapidaria delle utopie coltivate durante l’Estate dell’Amore, quando il Flower Power degli hippies andava a braccetto con il Black Power degli afroamericani. Una fugace osmosi della quale il clan di Sly Stone, multirazziale e di genere plurale, costituiva un’allegoria perfetta.
Soffriva di una psicosi di natura differente Brian Wilson, vittima di ricorrenti attacchi di panico: dopo aver sbancato l’hit parade d’oltreoceano con le edonistiche canzoncine da surf dei Beach Boys, dal 1965 abbandonò l’attività dal vivo e in una sorta di clausura creativa, alimentata dal consumo di marijuana, Lsd e psicofarmaci, diede forma al memorabile Pet Sounds, la risposta a Rubber Soul degli “invasori” Beatles, che però a loro volta replicarono poi con Sgt. Pepper’s… e annichilirono così Brian, impegnato nella titanica impresa della “sinfonia adolescenziale a Dio” chiamata Smile, un’incompiuta destinata al rango di araba fenice.
Benché fossero personaggi agli antipodi, Brian e Sly conobbero quindi un destino simile, andando in tilt all’apice della carriera e “rovinando” le rispettive “famiglie”, poiché entrambi guidavano gruppi a conduzione familiare: tali erano infatti i Beach Boys originari (tre fratelli, un cugino e un compagno di scuola, con il padre dei Wilson manager) e Sly and the Family Stone (accanto al capobanda, un fratello, una sorella, l’allora partner e un paio di amici).
Infine, l’uno a Los Angeles e l’altro a San Francisco, agivano in California: negli anni Sessanta culla della Controcultura. Erano pertanto simboli diversi e complementari di una mitologia pop la cui eco si è riverberata fino ai giorni nostri, contribuendo al consolidamento dell’egemonia culturale esercitata dagli Stati Uniti su scala planetaria a partire dal secondo dopoguerra, codificata con l’espressione “soft power” nel saggio Bound to Lead firmato nel 1990 dal politologo Joseph Nye: ironia della sorte, deceduto anch’egli il 6 maggio scorso.
Questa triste sequenza di avvenimenti sembra assumere dunque valore di metafora, ora che al “potere morbido” è subentrata la politica della sopraffazione praticata dall’amministrazione Trump.