Il jazz "Mestizx" di Ibelisse Guardia Ferraguti e Frank Rosaly

Intervista al duo di base ad Amsterdam, che suonerà a Jazz Is Dead 2025

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«Alla fine MESTIZX non è solo un album musicale ma una testimonianza culturale di forte impatto. Ferragutti e Rosaly hanno partorito un lavoro che è un omaggio ai loro progenitori e allo stesso tempo un manifesto per le generazioni future, un arco narrativo dall’introspezione all’azione, reso magistralmente in un mosaico di suoni che sfida, delizia e ispira. È una testimonianza della capacità della musica a creare un ponte tra passato e futuro, rendendo MESTIZX un debutto cruciale nel panorama odierno della (chiedo scusa preventivamente per l’uso di questa terribile nonché sbagliata definizione) world music». 

Un anno fa terminavo così la recensione dell’album d’esordio come coppia di Ibelisse Guardia Ferraguti e Frank Rosaly e a distanza di dodici mesi sono ancora più convinto di quanto scrissi all’epoca: MESTIZX è un lavoro potentissimo che continua a risuonare nelle mie orecchie e nel mio cervello. Tra poco i due saranno in concerto a Torino, tra i nomi di punta del ricco cartellone del festival Jazz Is Dead: è questa dunque l’occasione, direi più che giustificata, per una chiacchierata con questi due artisti.

Ciao a entrambi. Da dove siete collegati?

«Siamo nella nostra casa di campagna. Non siamo distanti da Amsterdam, diciamo un’oretta di macchina».

Io invece sono a Torino, dove verrete fra qualche settimana per il festival Jazz Is Dead. È un bel festival, vedrete, vi troverete bene. Per rispondere alla vostra domanda, questa è l’ottava edizione e si annuncia come la più ricca. Immagino che sarà anche la più dispendiosa, soprattutto per colpa del vostro cachet (risate).

FR: «Non crediamo proprio. In ogni caso controlleremo sull’estratto conto della banca (risate)».

Mestizx è in circolazione da un anno esatto e immagino che stiate ancora cavalcando l’onda lunga che questo disco si è rivelato essere. La vostra vita è cambiata?

FR: «Sì, è più frenetica. Non ho mai girato così tanto con una sola band in un anno. Questo disco mi ha messo improvvisamente a capo di un gruppo di cinque persone, è stato davvero emozionante e impegnativo, ma allo stesso tempo molto divertente».

Se non ricordo male siete già venuti in Italia lo scorso febbraio, a Milano.

IGF: «Sì, ma siamo stati anche a Roma e a Polcenigo, in provincia di Pordenone. E anche a Venezia, ma solo per turismo».

Potete darmi una definizione della vostra musica, per quello che può valere? Non guardatemi male, lo so che è una domanda abbastanza stupida, ma ai giornalisti piace incasellare gli artisti: è una questione di comodità o, più semplicemente, di pigrizia.

FR: «È davvero molto difficile dare una definizione della propria musica. Diciamo che la nostra non rientra nelle categorie classiche, è qualcosa che si sviluppa negli spazi tra di esse, a sua volta è uno spazio. Diciamo che quello spazio è un incrocio tra la musica latina aggiornata ma anche la musica jazz aggiornata e anche la musica elettronica aggiornata. Sperimentale».

«Diciamo che la nostra musica non rientra nelle categorie classiche, è qualcosa che si sviluppa negli spazi tra di esse, a sua volta è uno spazio». 

«È un gioco, è un puzzle. È uno spazio che vogliamo creare perché è così indefinito che merita un suo posto, qualcosa del genere. E questo è stato il nostro obiettivo, abbiamo voluto creare questo spazio intermedio. Quindi la categoria è che forse stiamo partorendo una categoria, inventando una categoria che si trova tra tutti questi luoghi che non possono esistere all’interno delle categorie (mi sono un po’ perso, lo ammetto)». 

È un periodo strano, stiamo indubbiamente vivendo un periodo strano, particolarmente difficile per le minoranze e i meticci. Voglio dire, negli USA i loro diritti sono calpestati dalla nuova amministrazione, in Europa c’è una destra crescente, in Italia abbiamo già da due anni e mezzo abbiamo un governo di destra. Penso che sia stato molto importante registrare un disco come il vostro e intitolarlo Mestizx.

IGF: «È una musica di protesta, certo. Sì. Sì, di sicuro. Penso che questa sia stata la radice iniziale e poi ci siamo spostati in tempi remoti, ma anche nel presente e in un futuro molto veloce. La protesta era come una palla che conteneva tutta questa musica che già faceva parte di noi, nel tessuto di quella che era già la nostra musica».

Perché vivete in Olanda?

IGF: «Viviamo ad Amsterdam, che è un’altra cosa rispetto al resto dell’Olanda. Diciamo che è come New York rispetto agli Stati Uniti o Parigi rispetto alla Francia. È una città internazionale ma non troppo e con una grande comunità di musicisti provenienti da tutto il mondo. Alla fine diventa una nuova Mestizx».

E parlate anche la lingua?

IGF: «Io parlo olandese perché vivo lì da molto tempo, circa 22 anni. Non è facile. Non è facile, è orribile. È una cosa orribile (risate). Frankie non l’ha imparato».

Ma forse dopo un paio di spliff...

FR: «Sì, certo, sarò in grado di parlare perfettamente l'olandese. Anche l’italiano, ogni lingua, tutte le lingue (risate – in realtà durante l’intervista entrambi fumano a varie riprese una sigaretta elettronica). È anche vero che qui tutti parlano bene l’inglese e quindi subentra un po’ di pigrizia».

IGF: «L’italiano è una bella lingua, penso che mi metterò a studiarlo».

Sai come si dice? Il francese è la lingua per parlare di politica, l’inglese per parlare di affari, lo spagnolo per parlare con Dio e l’italiano per parlare con le donne.

IGF: «Pensavo per parlare di cibo (risate)».

Spesso i due argomenti vanno a braccetto, diciamo che è una buona combinazione... Cambio argomento per non rischiare di scivolare nel patriarcato: cosa significa oggi il termine jazz? In questi ultimi anni c’è stato nuovamente un sacco di hype intorno a questa musica (o a questo termine) ma ognuno ha la propria definizione. È rifiorita la scena britannica grazie a nomi quali Shabaka, Kokoroko, Nubya Garcia, Ezra Collective e altri ancora, c’è la scena di Chicago che ruota intorno all’etichetta International Anthem: pensate di appartenere a una scena specifica o no?

FR: «Hmm, non lo so. Credo di non essere personalmente molto preoccupato per questo, sono più interessato a discutere del mio personale viaggio nella musica. Sento che tutto ciò che faccio è jazz, perché è quello che ho studiato di più. E quando mi riferisco alle mie esperienze musicali e collaboro con altre persone su un palco, lo faccio usando lo stesso linguaggio e gli stessi impulsi che ho imparato nella forma jazz».

«Sento che tutto ciò che faccio è jazz, perché è quello che ho studiato di più». 

«Quindi per me è come se fosse jazz, tutto lo è. E direi che parte della musica di questo disco è influenzata dai codici, no, aspetta, non voglio dire i codici, ma dal, sì, dal linguaggio e dalle tecniche musicali nel relazionarci l'uno con l'altra, dagli impulsi del jazz, almeno credo. E c'è l'improvvisazione e ci sono i fiati. Ma dato che ho davvero difficoltà con la definizione del genere, è difficile per me dire dove ci siamo inseriti in tutto questo. Sento che il jazz si è trasformato a tal punto da diventare altre cose che ora sono lì in mezzo. E la forma jazz è definita da cose del passato che gli artisti stanno implementando oggi. Quindi sì, penso che il jazz sia progredito in un modo tale che è diventato qualcos'altro. E poi ci sono forme diciamo più classiche di jazz che conservano una forma tale che io posso classificare come jazz senza sentirmi come se stessi dando loro un nome sbagliato. Penso che la contaminazione sia davvero la ragione per cui il jazz sta diventando di nuovo così popolare in questo momento».

IGF: «Sì, sì, è davvero interessante. Mi chiedo se c'è anche una necessità da parte del pubblico per qualcos'altro. Non è che io non ami la musica pop altamente prodotta, ma ha un certo suono che è molto piatto e molto denso. Mi chiedo se la gente stia cercando un'alternativa a quel suono con cose che abbiano un po' più d’aria fresca e non così piatte nella produzione. Io non ho il background di Frank in termini di mondo jazz, anche se fin dai primi giorni ad Amsterdam sono sempre andata nei locali jazz a guardare cosa stava succedendo. In un certo senso anch’io facevo parte della scena e sono rimasta colpita dalla filosofia del jazz, che ha portato la mia immaginazione a vedere un suono che si libera continuamente. Trova una forma e poi la rompe. Sento che il jazz per me è una delle poche cose che ha detto: "No, ora troveremo una nuova forma". E allora lo faremo più hip hop, saremo più questo, saremo più quello. È un'entità che ha una sua volontà e che si rivolge solo ai suoi destinatari. E quindi a Shabaka o a chiunque altro, a Ben LaMar Gay o a Jeff Parker, quelli che sono disposti a ricevere questa nuova energia dalla stessa fonte. E sono d'accordo con Frank, a volte è difficile dire jazz perché è così fluido. Per me, quello che sta succedendo è che il jazz, almeno in questo nuovo movimento, è un po' più comunitario È qualcosa di vivo, è un movimento in movimento, passami il gioco di parole. Se un disco ti piace e lo ascolti dal vivo, è diverso, si sente l’energia, la vitalità. Questo è ciò che mi piace dell'essere associati al jazz, è la fonte di ogni energia».

Tre anni fa Jaimie Branch suonò a Jazz Is Dead, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa.

FR: «È stata una grande perdita. Sì. Era una brava persona, davvero una brava persona. Sì, era una mia cara amica quando vivevo a Chicago. Abbiamo suonato un sacco di musica insieme ed è stata una tragedia perderla. Che tristezza!».

E adesso…sorpresa! Dai, un po' di tecnologia: tutti parlano di AI, di ChatGPT, di Gemini: pensate che sia un'opportunità per la musica o un pericolo?

FR: «Come sempre dipende dall’uso che ne facciamo. Certo, a volte sembra così strano che stiamo andando così lontano con AI. Stiamo per creare intelligenze estreme e molto veloci, ma non sappiamo neanche il nome degli alberi che stanno intorno a noi nei nostri giardini. A ben pensarci è una follia. Per me è..., non so, mi sento come se non avessimo ancora le basi per capire ciò che AI potrà causarci, sento che sta andando troppo veloce. Attenzione, non critico lo strumento in sé. È come Internet all'inizio, è uno strumento e in quanto tale è neutro. Se lo usi male, non è colpa dello strumento. Siamo agli inizi, adesso sembra un Far West, poi inevitabilmente arriveranno le regole o almeno lo speriamo. Personalmente non sono preoccupato che l’AI prenderà il controllo dell’industria musicale o qualcosa del genere; diciamo che metterà un piede all’interno. Già oggi nel mondo di Spotify la gente ascolta molta musica generata dall’AI, qualcosa che va oltre la mia comprensione, ma probabilmente non lo sa neanche. Ripeto, non sono preoccupato, stiamo solo cominciando a vedere come sarà utilizzabile per l’umanità».

IGF: «Per me è come quando la gente dice di aver paura dei fantasmi: io ho molta più paura dei vivi, sono più pericolosi. Al momento ho più paura di Spotify che dell’AI. Molti ragazzi non ascoltano la musica, ascoltano l’algoritmo, non sono autonomi nella loro ricerca, non scelgono. È questa la mia preoccupazione. Siccome hai ascoltato questa canzone, ti piacerà quest’altra: no, non è vero. Bisogna usare il proprio gusto, specialmente quando si è giovani, l’algoritmo non è Dio, spesso propone merda, non ci vuole bene, deve essere chiaro. L’algoritmo e l’AI sono costruiti all’interno di un sistema transazionale capitalistico, sono basati sul profitto, e le grandi etichette discografiche fanno di tutto per essere sicure che la loro musica sia in cima alle liste di questi algoritmi; in questo modo il capitalismo vince di nuovo e crea un punto di vista omogeneo per gli ascoltatori. E allora avanti così, con la nuova canzone di Shakira (risate)». 

Musicalmente parlando, avete qualche guilty pleasure?

Entrambi: «Sì, Bad Bunny!»

Ma no, Bad Bunny non è un guilty pleasure, è un grande, il suo ultimo album è una bomba.

IGF: «Benito è il migliore, me lo sogno la notte (risate). Paragono quello che ha fatto nel mainstream al nostro MESTIZX, è davvero riuscito a dare forma a un universo, non solo con la musica ma anche comunicando la protesta, e l’ha fatto a livello globale, ha usato la musica come una piattaforma per far conoscere i problemi di Porto Rico. Top class!».

Seguite un metodo fisso quando create musica? Come lavorate? Litigate e, se sì, chi ha la meglio?

FR: «Vince sempre lei, non c’è neanche bisogno di dirlo (risate). Quando collaboriamo non seguiamo un metodo, alle volte io le do un abbozzo musicale e altre volte succede il contrario, magari lei ha in testa una melodia, e allora prendiamo tutti questi elementi, li mettiamo da parte e li facciamo per così dire fermentare prima di cucinarli e farli diventare una vera canzone. All’inizio è un processo lento ma poi il tutto prende velocità e non si ferma più».

IGF: «Mi piace lavorare sulla relazione con i miei territori, portare la mia terra nella mia musica e scrivere non solo per me ma per tutti. È un processo profondamente filosofico per entrambi».

FR: «Per quanto concerne il linguaggio, Ibelisse è molto più articolata, analitica, io faccio più fatica a esprimermi con la stessa chiarezza, anzi spesso non ci riesco proprio. Questo a volte può dare vita a delle incomprensioni. Magari non sono d’accordo ma non litigo».

IGF: «Siamo come una specie di giardino, e in un giardino c’è un centro; se la radice raggiunge i minerali che sono nel terreno, poi il fiore raggiunge il sole e tutti e due hanno bisogno l’una dell’altro per diventare questa entità. E io sento che noi due lavoriamo in questo stesso modo: qualche volta io vado alla radice, qualche volta è Frank a farlo, qualche volta io sperimento l’energia del sole. Ho scritto i testi, tutti quanti meno uno, scritto da un ecologista boliviano. Vuoi sapere una cosa? Un mio antenato era di origine italiana, anzi proprio di Torino: è grazie a lui che ho ottenuto il passaporto italiano che mi ha permesso di trasferirmi ad Amsterdam per studiare arte. È anche per questo motivo che vorrei studiare la tua lingua, per sdebitarmi nei confronti dei miei predecessori».

Siamo alla fine, un’ultima curiosità: cosa si devono aspettare coloro che verranno a sentirvi a JID? Ci sarà qualche nuova canzone?

FR: «No, non ci sarà musica nuova, però la gente sentirà qualcosa di diverso rispetto al disco perché suoneremo con una band, saremo in cinque sul palco. Per suonare con noi abbiamo scelto degli improvvisatori e qui torniamo alla mia idea di jazz, dunque saremo in grado di conservare le strutture originarie delle canzoni ma le apriremo, le allargheremo grazie all’improvvisazione. Ci saranno dei momenti solistici, molta energia e molta ritualità».

IGF: «Frank è un incredibile alleato in tutto ciò. E mi piace l’idea di comportarmi come i nostri antenati, suonare per la gente, per il nostro nutrimento, per le montagne, per l’ambiente, per gli esseri viventi: è così bello! E quindi il concerto, almeno per noi che siamo sul palco, diventa un rito, siamo come dei cuochi che cucinano qualcosa di magico da distribuire. In questi giorni, in questo periodo, che delle persone si radunino in uno spazio è qualcosa che noi prendiamo molto, molto, molto seriamente. Non è una cosa garantita. Ok, la scusa può essere quella di assistere a un concerto ma noi riteniamo importante che alcuni vogliano condividere uno spazio in quanto esseri umani. Noi speriamo che anche la musica faccia avvicinare le persone tra di loro perché siamo tutti in quello spazio vivendo insieme la stessa esperienza. Nei nostri concerti c’è molto di più di alcuni musicisti che suonano i loro strumenti insieme: speriamo di fare in modo che la gente riesca a provare questa sensazione, è davvero importante per noi».

Da quanto ho riportato il loro concerto del 1° giugno si annuncia davvero imperdibile; se a ciò aggiungete che lo stesso giorno potrete vedere Oren Ambarchi, Alabaster DePlume (con Momoko Gill e Ruth Gollier) e l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp…dai, ci si vede sotto il palco.

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