Angel Olsen si racconta

Big Time, il nuovo lavoro della cantautrice statunitense Angel Olsen, è un tour de force autobiografico

Angel Olsen
Disco
pop
Angel Olsen
Big Time
Jagjaguwar
2022

Il preambolo a Big Time, sesto album in una serie avviata esattamente dieci anni fa, è stato uno stress test per Angel Olsen, trentacinquenne cantautrice statunitense. Nell’aprile 2021 aveva proclamato su Instagram: “Sono gay”. E poi, nel giro di un paio di mesi, ha perso entrambi gli anziani genitori adottivi.

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Combattuta fra la gioia della piena accettazione di sé, sollecitata da un nuovo amore, e fra i tormenti del lutto, Olsen non si è tirata indietro dall’impegno preso con Jonathan Wilson, recandosi ai Fivestar Studios di Topanga, accucciati a valle delle Santa Monica Mountains, dove il produttore californiano coltiva a distanza di mezzo secolo il lascito dell’epopea di Laurel Canyon.

Ne è venuta fuori un’opera dall’evidente impronta autobiografica, musicalmente lontana dal “massimalismo” del precedente All Mirrors (2019), appena temperato nel disco gemello Whole New Mess (2020), e più ancora dal divertissement elettronico della scorsa estate, l’Ep di cover Aisles, nel quale compariva addirittura “Gloria” di Umberto Tozzi: semmai affine allo stile degli esordi, ma con maturità e mezzi maggiori.

Epidermicamente questa decina di canzoni ha sembianze country: carattere da lei confermato citando tra le fonti d’ispirazione Neil Young e Lucinda Williams. Ascoltandolo però attentamente, si colgono sfumature che in misura impercettibile ne spostano l’asse altrove. L’iniziale “All the Good Times”, ad esempio: al miagolio della steel guitar corrisponde una decorazione di ottoni modello Muscle Shoals, tipo una cartolina seppiata del viaggio compiuto da Dusty Springfield a Memphis nel 1969.

È una canzone di commiato, aperta dalla frase: “Non posso dire che mi dispiaccia, siccome non mi sento più così in torto”. A una relazione finita, ne segue una sbocciata da poco: il brano da cui l’album prende titolo è stato scritto insieme alla compagna Beau Thibodeaux. “Ti sto amando alla grande”, canta Olsen su cadenza di valzer, “apri le tende, fammi vedere la luce del sole”.

Eppure: “Il passato è con noi, recita una parte, come possiamo cambiarlo?”, domanda “Ghost On”, ballata introspettiva dallo sviluppo solenne. Ai trascorsi della protagonista allude in maniera esplicita “Dream Thing”, rievocandone la gavetta da corista di Bonnie “Prince” Billy: “Stavo cercando nella mia mente le parole di ‘Black Captain’”.

Allora era una principiante, adesso è artista a tutto tondo: lo dimostrano la fiera vulnerabilità di “All the Flowers”, che procede malinconica in un fruscio d’archi, e l’ingegnosità formale di “Right Now”, dove il folk entra in punta di piedi nella camera d’eco per uscirne indirizzato verso un inopinato epilogo elettrico sintonizzato sulla risolutezza dei propositi (“Ho bisogno di essere me stessa, non vivrò un’altra menzogna”).

A quel punto arriva “This Is How It Works”, in memoria della madre scomparsa (“Raccontami una storia che mi faccia dimenticare”), anche se il cordoglio non arresta il flusso degli eventi: “Dimenticare i vecchi sogni, ho qualcosa di nuovo”, dice subito dopo “Go Home”, torch song dagli accenti melò. E quindi ecco “Through the Fires”, dal tono sommesso e il contenuto rovente, in un’atmosfera alla Twin Peaks: “Cammina tra le fiamme di tutti i desideri terreni e liberati dal dolore che t’impedisce di andare più in alto, più leggera”.

Chiude in bellezza “Chasing the Sun”: piano dolente, arredi cameristici, voce intensa e profonda per “scacciare la tristezza”. Incantevole quanto il disco intero.

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