Marc Ribot, o dell’ottimismo della volontà

In Map of a  Blue City il grande chitarrista statunitense diventa cantautore nel segno di Gramsci

Marc Ribot
Disco
pop
Marc Ribot
Map of a  Blue City
New West
2025

Chitarrista virtuoso e versatile, in proprio o al servizio di altri, Marc Ribot rivela in Map of a Blue City un insolito profilo di se stesso, che noi definiremmo da “cantautore”. 

Mai in precedenza si era esposto così tanto in voce, addentrandosi per di più in un sentiero di evidente impronta autobiografica, tale da fare di questo disco un complemento musicale alla raccolta di scritti Nelle mie corde, pubblicata in Italia da Sur nel 2023. Indizi inequivocabili sono il titolo, mutuato da quello che sua figlia attribuì nell’infanzia a un disegno, e il paio di brani in cui spicca la figura del padre: l’iniziale “Elizabeth” rievoca il momento dell’addio (“Abbiamo pregato intorno al capezzale, mentre il tuo cuore fragile batteva il suo ultimo tatuaggio”) con un tono reso elegiaco dal sottofondo di archi, che ritroviamo poi – insieme a flauto, sassofono e fisarmonica – nell’orchestrazione languida di “Daddy’s Trip to Brazil”, narcotica bossa nova carica di saudade.

 Ha viceversa fattezze da rhythm’n’blues “Say My Name”: invocazione d’amore espressa in falsetto su un canovaccio dall’andamento ipnotico, solennizzato dal lamentoso contrappunto di un organo Hammond. Si tratta degli episodi più articolati in termini di strumentazione, originati verosimilmente dalle sessions prodotte nel 2014 dal compianto Hal Willner, rimaste finora inedite. 

Il materiale restante è invece frutto di disadorne registrazioni domestiche, lasciate anch’esse a lungo nel cassetto: “Ho sempre avuto un debole per loro, dunque non le ho mai dimenticate”, ha raccontato Ribot a proposito della gestazione addirittura trentennale dell’album. “Non mi sono perso, sono solo senza meta”, canta con intonazione alla Chet Baker nella traccia che gli dà nome: astratto blues creato impiegando “una chitarra da venti dollari” e il tintinnio di un glockenspiel. L’atmosfera è intenzionalmente confidenziale: “Volevo che l’ambiente fosse abbastanza intimo da non farci allontanare, ma caldo abbastanza da farvi sentire come se steste ascoltando un amico”, spiega su Bandcamp. 

Habitat idoneo per la confessione “davanti allo specchio” inscenata durante “Death of a Narcissist”, dove l’acustica dialoga con l’elettrica in modalità slide e una benevola voce femminile mitiga lo spleen del protagonista. 

 Subito dopo ecco “When the World’s on Fire”, “blues buddista” ottenuto rielaborando lo standard folk che la Carter Family ricavò quasi un secolo fa adattando l’inno gospel “Oh, My Loving Brother”, sulla melodia del quale Woody Guthrie modellò in seguito “This Land Is Your Land”: un trattato di Storia della Musica Americana condensato in quattro minuti e mezzo. 

 In sequenza arriva quindi “Sometime Jailhouse Blues”, che riprende alla lettera i versi dell’omonima poesia firmata nel 1949 da Allen Ginsberg immaginando le sensazioni di un detenuto in attesa della resa dei conti. 

Chiude la partita un esteso esercizio di rumorismo ambient chiamato “Optimism of the Spirit”, ossia l’ottimismo della volontà abbinato da Antonio Gramsci al pessimismo della ragione: “L’atteggiamento giusto di un rivoluzionario in tempi come questi”, ha chiosato Ribot, che nei giorni scorsi ha festeggiato su Facebook il 71esimo compleanno a pugno chiuso, sbandierando la tessera dell’Anpi sulle note di “Bella ciao” nella versione da lui realizzata in coppia con Tom Waits per la collezione Songs of Resistance.

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