Un po' d'aria nuova per la Biennale

Riflessioni sull'edizione appena conclusa

Recensione
classica
Complice una serie di impegni concomitanti e questioni personali, contrariamente alle mie abitudini ho potuto seguire quest’anno solo pochi appuntamenti della Biennale Musica, prendendola un po’ come quando butti dentro la testa per vedere come sta una vecchia amica. E, dal mio punto di osservazione, forse incompleto, ho avuto l’impressione che l’amica non se la passasse troppo bene.

Alcune questioni sono ormai vetuste, oltre che vexatae, e ne ho scritto anche negli anni scorsi. In particolare la scarsa attitudine a volersi aprire a linguaggi e esperienze che non siano quelli, ormai piuttosto asfittici, di ambito accademico e quasi esclusivamente Europeo (gli unici extraeuropei in programma, se non mi sbaglio erano Cage e Crumb, oltre a Dai Fujikura, che è giapponese di nascita, ma britannico di formazione musicale).
Di altre musiche, altre esperienze, altre geografie, altre pratiche, altre comunità di musicisti e di fruitori, questa Biennale sembra non volersi occupare, con la conseguenza che, oltre a fornire uno sguardo meno aperto sulla contemporaneità, aumentano (a maggior ragione se le risorse economiche a disposizione del direttore artistico sono minori rispetto al passato) anche le possibilità di ritrovarsi con materiale non sempre all’altezza della situazione.

Chiariamolo subito: a mio parere le criticità sono (lo sono da molto tempo) prevalentemente di visione complessiva, di linguaggio e di compositori. Gli esecutori, sia i singoli che gli ensemble, continuano a uscirne a testa alta, forti di una preparazione, una dedizione, una sensibilità che meriterebbero certo composizioni più stimolanti di quelle che mediamente vengono sottoposte alla loro attenzione.

Mi direte: ma dai! Se hai assistito solo a pochi concerti, sarai stato sfortunato! Magari sì, sono stato proprio sfortunato, ma magari no (negli intervalli o dopo i concerti ci si fa raccontare quello che ci si è perso dagli altri colleghi e dal pubblico eh…).
Nel dubbio, cerco comunque – come ho sempre fatto nei confronti di un’istituzione cui sono legatissimo come la Biennale e nei confronti di un curatore come Ivan Fedele che è compositore e uomo di innegabile intelligenza – di porre il discorso in termini (pro)positivi, anche se qualche volta confesso che la tentazione di essere più tranchant sarebbe forte.

Ho ascoltato mezzo concerto dello Slowind Quintet, bravissimi, alle prese con i 10 pezzi per quintetto di fiati di Ligeti (meravigliosi, ma hanno mezzo secolo!) e con un lavoro piuttosto insignificante di Nina Šenk. Sono dovuto scappare perché avevo un impegno, ma avrei ascoltato volentieri il pezzo di Vinko Globokar, compositore che ha frequentato altre pratiche e che mi interessa sempre molto.

Ho ascoltato Chemical Free (?) di Nicola Sani, lavoro multimediale piuttosto stimolante nell’idea e nella presenza, nelle tre parti, di solisti come Daniele Roccato (contrabbasso), Aldo Orvieto (pianoforte) e Roberto Fabbriciani (alle prese con le condotte pneumatiche del flauto iperbasso). Interessante anche l’uso di motion capture, assai meno quello del video, per un esito complessivo non privo di momenti suggestivi.

Ho ascoltato l’Ensemble Recherche, bravissimi, e, a fronte di un Trio fluido di Lachenmann di pregevole scrittura (nonostante dimostrasse tutti i suoi anni, cinquanta), il resto del programma è stato noioso e veramente brutto, in particolar modo l’estenuante rarefazione di 19 di Moosbrugger.

Ho ascoltato il duo Francesco Dillon (violoncello) e Emanuele Torquati (pianoforte) ed è andata decisamente meglio: non solo perché sono due esecutori meravigliosi, non solo perché Melencolia I di Sciarrino è un pezzo delizioso, ma anche perché Further In di Silvia Borzelli è un lavoro davvero notevole e incisivo, il migliore sentito tra le novità recenti. Ben architettato, anche se a me non ha convinto del tutto, Memorie di tempesta di Federico Gardella, da dimenticare i pezzi di Larcher (una specie di esercizio quasi espressionista) e di Milica Djordjević.

Del Leone d’Oro a Aperghis vi relaziona Stefano Nardelli in altro blog.

Ma sì, dai, sono stato sfortunato!
Però più che altro ho avuto la sensazione, per continuare a usare quest’immagine del buttar dentro la testa, di essermi introdotto, nei pochi concerti che ho potuto seguire, in una specie di riserva indiana, di mondo che sembra volersi autoproteggere quanto più può dalla realtà esterna.

È una sensazione che ho da anni, fatico a togliermela di dosso.

Eppure c’è un mondo straordinario di esperienze musicali lì fuori, anche complesse (se l’ambito popular dovesse continuare a sembrarvi un problema, a me non lo sembra per nulla), certamente alcune più urgenti, a contatto stretto con il reale o più ficcanti nel dimostrare eventualmente l’impossibilità del parlare di realtà.

Provare a ripartire da quelle, magari anche a rischio che ci sia qualche cosa di più ingenuo in programma (tanto sempre meglio del solito pezzo dell’allievo dell’allievo del cugino del maestro, no?), provare a aprire orecchie e cuore a altre pratiche e linguaggi. Credo che la Biennale possa e debba farlo. Non so se lo continuerà a fare Ivan Fedele (cui scade il mandato e cui, ripeto, va la mia stima e un pizzico di rammarico perché non ha potuto lavorare con moltissime risorse) o lo farà qualcun altro (magari provare con un direttore artistico non compositore? magari straniero? io la butto lì eh…). Ma vale la pena di tentare.

(Ah, se poi tutti gli altri concerti che non ho visto erano meravigliosi e raccontavano un mondo differente, allora scusatemi e fate come se non aveste letto, dico sul serio. Mi premeva intanto condividere con voi che leggete alcune riflessioni, ma il dibattito è certamente aperto.)

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