Ballare con l'organetto

Didier Laloy, dal Belgio al Folk Club di Torino

Recensione
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Avevo incontrato Didier Laloy per la prima volta a Marsiglia, come membro (il più giovane) del supergruppo Samurai, con gli assi dell’organetto europeo. Nel quintetto – che come le barzellette comprende, oltre al belga Laloy, un francese, un irlandese, un finlandese e, naturalmente, un italiano, Laloy emergeva come personalità unica, nel suo approccio fisico allo strumento, nel suo “ballare” con il mantice, fronteggiando i compagni d’avventura come in una gara di scherma, o un tango. Garantiva, con parole di stima per lui, lo stesso Riccardo Tesi (l’italiano della compagnia).

La seconda volta l’avevo intercettato – per puro caso - in Catalogna, in uno showcase della Fira de Manresa: era in uno spettacolo dal titolo Sources, con il danzatore e coreografo Nono Battesti (ne parlavo qui). Qui, veramente, ballava; ora con il compagno di palcoscenico, ora interagendo con delle proiezioni su uno schermo traslucido. Laloy, alto e allampanato (non certo un fisico da ballerino) occupava lo spazio del palco con una presenza e un carisma rari. Il ricordo dell’emozione di quella performance è rimasto nitido, più di qualunque altro spettacolo visto in questi anni di fiere di world music.



La terza occasione, venerdì scorso, è vicino casa: il FolkClub di Torino, che ha portato Laloy in Italia con il suo gruppo S-Tres (Frédéric Malempré alle percussioni e Paschal Chardome alla chitarra, oltre al leader all’organetto). Tutto quello intuito nei precedenti incontri – la “fisicità” del rapporto con lo strumento, il fraseggio melodico spesso spezzato, meno disteso del modello “italiano” che abbiamo di solito in mente – riemerge ingrandito e perfettamente a fuoco nel concerto torinese. Il palco piccolo fa da lente, e permette di “entrare” nel linguaggio del musicisti (chi frequenta il FolkClub sa di che parlo). E la fisicità, il “ballo con l’organetto” che è – a questo punto – la cifra stilistica di Laloy, questa volta occupa lo spazio in un modo quasi disturbante, per la prossimità fisica che ne deriva.

S-Tres percorre un repertorio «ispirato da musiche della tradizione europea», spiega Laloy. Tocca il valse musette, la rachenitsa, la tarantella, persino (uscendo dal continente) il blues e la bossa nova: tutto, ma proprio tutto, diventa periferia di Bruxelles, nuovo centro del mondo. L’organetto diatonico, che si ritaglia un ruolo da protagonista ma mai da virtuoso, si conferma, ancora una volta, strumento dell’epoca contemporanea a tutti gli effetti, lontanissimo da quel mondo popolare da cui ha preso il via la sua parabola, eppure perfettamente consapevole della lunga strada percorsa.

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