Soli in quartetto

Al GLBT Film Festival la "riscoperta" di Il Quartetto Basileus di Fabio Carpi

Recensione
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Quando per lavoro si bazzicano eventi non musicali (poniamo, ad esempio, un film festival) in cerca di temi musicali, può anche capitare di incappare in sole micidiali. Oppure, altre volte, si scoprono piccolo gioiellini nascosti: è il caso di Il Quartetto Basileus, film italiano del 1981 di Fabio Carpi (menzione a Locarno nel 1982), in cartellone al ventiseiesimo GLBT Film Festival di Torino. Come al solito al centro di polemiche per mancati patrocini, il festival del cinema omosessuale di Torino ha messo insieme un programma di rilievo, con – oltre al concorso –sezioni “pesanti”, come il focus Iran, nodo alla gola dedicato alla condizione omosessuale nel paese islamico. E, naturalmente, uno stream dedicato alla riscoperta di titoli meno noti di casa nostra, Vintage Italia 150: il nostro Risorgimento. È qui che incontriamo Il Quartetto Basileus.

Che, in realtà, non è un film sull’omosessualità.
Un quartetto d’archi di fama decide di sciogliersi dopo la morte del suo solista, perché «schiavi per trent’anni», i tre superstiti hanno sempre scelto la musica, «rinunciando alla vita». Solo l’incontro con il giovanissimo talento Edoardo li convince a riprendere l’attività, portandoli però a fronteggiare l’inesorabile scorrere del tempo, le occasioni sprecate, la solitudine, contemplando il disfacimento personale e artistico, con la loro musica - in confronto alla vitalità del giovane virtuoso – ridotta ormai ad un «un opaco grigiore» (come scrive un «impudente» critico musicale). In particolare, il rapporto fra Edoardo e Guglielmo (Michel Vitold), il secondo violino, paterno e omosessuale insieme, sfocia in una violenta sublimazione letteraria (Morelli è il nome del giovane violinista, come il Morel di Proust) che porta l’anziano musicista alla pazzia.

A ben vedere, neanche un film sulla musica dunque, ma piuttosto sulla solitudine della vecchiaia, che fa del quartetto, delle dinamiche fra le parti, una crudele metafora dei rapporti umani, sentimentali, amicali, filiali. Per gli stessi protagonisti la musica non è gioia di vivere, quanto un obbligato sopravvivere, al punto che Diego, violoncellista (uno strepitoso Omero Antonutti), condannato dalla malattia a scegliere fra sordità e immobilità, dice di preferire la prima alla seconda, perché in fondo «tutta la musica tende al silenzio».

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