Cyndi Lauper, il canarino del Queens

Let the Canary Sing è il biopic dedicato a Cyndi Lauper che apre Seeyousound X

Cyndi Lauper
Cyndi Lauper
Articolo
pop

Il compito d’inaugurare la decima edizione di Seeyousound – International Music Film Festival spetta a Let the Canary Sing, il docufilm di Alison Ellwood – pluripremiata regista, produttrice e montatrice, di cui ricordiamo i recenti documentari Laurel Canyon (2020), nominato agli Emmy, e The Go-Go's (anch’esso del 2020), vincitore del premio come miglior film musicale ai Critics' Choice Awards – dedicato a ripercorrere la carriera di Cyndi Lauper.

– Leggi anche: 10 film per Seeyousound X

Devo essere sincero: dopo il suo secondo album, True Colors, il nome di Cyndi Lauper era scomparso dal mio radar, quindi stiamo parlando di… fatemi contare, era il 1986 e dunque gli anni sono ben 38. In questo lasso di tempo è pensabile che Cyndi Lauper abbia fatto qualcosa ed ecco che questo docufilm arriva a colmare questa mia (e non solo mia, credo) lacuna.   

Let the Canary Sing è un lavoro leggero ma ben fatto, un’opportunità del tipo “Cyndi by Cyndi” per l’artista e un gruppo scelto di famigliari, amici e collaboratori, per raccontare in maniera nostalgica la sua biografia.

Potrei dire che la struttura della pellicola è tanto convenzionale quanto Lauper invece era avant garde, però, malgrado i suoi scivoloni agiografici, riesce a farci conoscere un paio di cose sulle precoci capacità di sopravvivenza della cantante e sull’intenso lavoro di produzione dietro a quei successi planetari che sono stati “Girls Just Wanna Have Fun” e “Time after Time”.

Let the canary sing

 Impiegando un mix di interviste recenti, materiale d’archivio e sequenze animate (ultimamente spesso impiegate nei rockumentary), la forma adottata da Ellwood è piuttosto semplice e genera nella narrazione una qualità estetica a tratti sonnolenta.

Si va su di giri quando sullo schermo scorrono le immagini della giovane Cyndi e una riflessione sorge spontanea: è un miracolo che lei sia ancora conosciuta per le sue pettinature asimmetriche e i suoi abbigliamenti DIY se consideriamo che nello stesso periodo Madonna stava cominciando a risucchiare tutto l’ossigeno presente nella stanza. Lauper irradia irresistibile calore umano e vibrazioni positive nelle vecchie interviste e nelle esibizioni dal vivo, vivaci quanto la sua impressionante gamma vocale.

Il film descrive per sommi capi aspetti della biografia di Lauper, come la relazione sentimentale con David Wolff, il suo manager durante i giorni di gloria, oppure il suo fervente attivismo LGBTQ, cominciato nel 1986 con la sua presentazione di “True Colors,” un inno per la comunità gay mentre era devastata dall’AIDS.

Il ritratto dell’artista che emerge da Let the Canary Sing non è solo elogiativo e controllato ma anche stranamente minimale. Negli anni recenti ci sono stati documentari disponibili in streaming su alcune pop star – mi vengono in mente quelli su Lady Gaga, Billie Eilish, Pink e Alanis Morissette – certamente controllati e protettivi al punto di essere accusati di essere agiografici, capaci però di rivelare molti aspetti di queste artiste in quanto esseri umani.

Let the Canary Sing è appagante quando si focalizza sulla musica e sul personaggio di Lauper ma si ha l’impressione di ricevere una versione davvero minuscola della sua vita, proprio come una porzione in stile nouvelle cuisine.

Detto ciò, devo ammettere che per i primi 50 minuti il film è formidabile. Cyndi Lauper, nata nel 1953 in una turbolenta famiglia svizzero-siciliana, ha 30 anni quando arriva al successo e il film ricostruisce in maniera particolareggiata il decennio di lavoro antecedente al raggiungimento di questo traguardo, incluso il divorzio dei suoi genitori e l’arrivo di un patrigno piuttosto violento e sessualmente molesto nei confronti di Cyndi che a quel punto decide di andare a vivere a casa della sorella Ellen e di cercare di diventare una cantante professionista, dapprima facendo gavetta in alcune cover band e poi, nel 1980, unendosi ai Blue Angel, dove ha modo di sfoggiare la potenza non comune della sua voce e con cui incide un singolo che ottiene un discreto successo,  “I’m Going to Be Strong,” cover di un brano scritto dalla celebre coppia di songwriter formata da Barry Mann e Cynthia Weil

 Il gruppo è in ritardo per essere new wave e in anticipo per essere post-new wave: Wolff, divenuto nel frattempo il suo manager, la convince a intraprendere la carriera solista ma il manager precedente la trascina in tribunale. Al termine del processo il giudice pronuncia le parole diventate il titolo di questo film: «Let the canary sing, lasciate che il canarino canti».

Wolff mette in contatto Lauper con Lennie Petze della Epic Records che, a sua volta, la presenta al produttore Rick Chertoff. Quest’ultimo ha trovato una canzone a suo modo di vedere perfetta per Cyndi, “Girls Just Want to Have Fun,” scritta e incisa nel 1979 dal rocker di Philadelphia Robert Hazard: niente di che, bisogna ammetterlo, e infatti Lauper reagisce con «Non farò mai quella canzone del cazzo. Non è quella giusta per me, è stata scritta da un ragazzo e dice “Hey, siamo fortunati. Le ragazze si vogliono divertire, eccomi, sono qui”. Non è la maniera giusta per me, io sono una donna».

Chertoff tiene duro e i due lavorano per mesi su quella canzone: il testo cambia, il ritmo cambia (Motown! Motown!), gli accordi e la melodia diventano contagiosi, e il modo di cantare di Cyndi è un tassello fondamentale della nuova vita della canzone. Le ragazze vogliono solo divertirsi perché…beh, chi è che non vuole divertirsi? Ma la canzone, nel suo stile dancing-in-the-streets, dice una cosa importantissima, quasi rivoluzionaria: le ragazze vogliono solo divertirsi esattamente nella stessa maniera in cui lo vogliono i ragazzi. Fun significa sì il divertimento, ma anche la libertà e l’esuberanza dell’invenzione di sé stessi.

«Quarant’anni dopo, “Girls just Want to Have Fun” rimane un inno femminista che incoraggia le ragazze e le donne a usare le loro voci per sfidare gli attacchi contro le loro opinioni e la loro indipendenza fisica» – Alison Ellwood

 Il film ci conduce all’interno del processo creativo e vediamo come Cyndi, collaborando con la celebre fotografa Annie Liebovitz, trasformi lo scatto per la copertina dell’album She’s so Unusual (uscito nell’ottobre del 1983) in un atto di proiezione immaginaria. La sequenza più sbalorditiva del film è uno spezzone del 1985, nel quale Lauper e Patti Labelle duettano su “Time after Time”, una sorta di duello gospel che mette i brividi.

 «Se ti senti perso, puoi alzare lo sguardo e mi troverai / Ancora e ancora / Se cadi, ti solleverò, ti aspetterò / Ancora e ancora» - Time after Time

Questo brano non ha lasciato indifferente un musicista che, guardando il video, forse riconoscerete…

 Cyndi Lauper ha avuto un declino come pop star piuttosto drammatico. She’s so Unusual, con la sua cascata di singoli, l’ha proiettata in quel magico Olimpo degli anni Ottanta al fianco di Madonna e Michael Jackson. E benché il suo secondo album, True Colors, non raggiunga lo stesso successo del precedente, ha comunque una sublime title track.

Ma i due album successivi, messi sul mercato nel 1989 e nel 1993, sono dei flop, come se la voce di Cyndi, così connessa col 1983, non lo fosse più con gli anni successivi.

Per lei comincia una seconda vita, decisamente meno interessante per gli spettatori. Il film omaggia la singolare passione del suo attivismo ma, una volta abbandonata l’arena del pop fuori dall’ordinario, Let the Canary Sing diventa un documentario piuttosto ripetitivo, soprattutto perché non riesce a trovare abbastanza storia dietro la litania dei risultati ottenuti da Cyndi: ci fa vedere perché lei era così unusual, diversa dagli altri, e così grande, senza però convincerci mai che stiamo davvero vedendo tutti i suoi true colors.

 «Girls just wanna have fun-damental rights!» - cartello esibito durante una marcia femminista a New York a metà degli anni 80

Il film sarà proiettato venerdì 23 febbraio alle ore 20.45 nella Sala 1 Cabiria del cinema Massimo, via Verdi 18, Torino, all’interno di SYS X.

Se hai letto questo articolo, ti potrebbero interessare anche

pop

Sufferah. Memoir of a Brixton Reggae Head è l'emozionante autobiografia dello scrittore londinese di origini giamaicane Alex Wheatle

pop

Mutiny in Heaven, diretto da Ian White, è il racconto sincero e senza sconti del primo gruppo di Nick Cave

pop

Il film Bob Marley: One Love del regista Reinaldo Marcus Green non riesce ad andare oltre gli stereotipi