Gli oracoli scomodi di un Tiresia elettronico

Realizzata all'interno del Festival "Corpi del suono", la performance dell'opera di poesia e musica "Tiresia", autori il compositore Agostino Di Scipio e il poeta Giuliano Mesa, ha sottolineato l'innovativo proposta di esperienza (plurima, aperta) dello spettacolo portata avanti in questa iniziativa, dando conto dell'approfondito lavoro comune degli autori sul ritmo e aprendo una finestra critica e calata nella tragica realtà dell'oggi sulla figura del veggente cieco, inascoltato perché vede e dice ciò che l'uomo non vuole vedere e dire.

Recensione
classica
Festival Corpi del Suono L'Aquila
Agostino Di Scipio
12 Dicembre 2001
L'Istituto Gramma, dinamica realtà abruzzese volta alla ricerca musicale elettronica, ha proposto per la XII edizione del suo Festival "Corpi del Suono" una ricerca/riflessione, efficace e suggestiva, sulle nuove forme di fruizione (plurima, aperta, personalmente orientata dall'ascoltatore) di un evento che la tecnologia consente: ne è venuta fuori la programmazione di "La freccia del tempo" (ambientata nelle sale di un antico palazzo di L'Aquila diversamente sonorizzate da apposite installazioni sonore e illuminotecniche) che ha ospitato la realizzazione di "Tiresia", opera di musica e poesia nata dalla stretta collaborazione del compositore Agostino Di Scipio e del poeta Giuliano Mesa. Personaggio mitologico sempre ambivalente, vissuto sette volte più a lungo dei mortali e destinato a conservare l'intelletto anche nell'Ade (dove continuerà a fornire i suoi oracoli), mutatosi per sette anni in donna, il veggente cieco Tiresia non ha ricevuto finora dal teatro musicale seria attenzione, se si eccettua il surrealista "Le mammelle di Tiresia" di Poulenc. Se lì la figura era un pretesto beffardo per il tema dello svilimento della femminilità, in questo teatro dell'ascolto di Di Scipio/Mesa Tiresia è pienamente il veggente inascoltato, che vede e dice ciò che l'uomo non vuole vedere o dire, venendone deriso nonostante sia stato pagato proprio per questo compito (sentirsi dire ciò che si vuole nascondere a se stessi); per questo i cinque oracoli che qui emette sono uno sguardo obliquo e linguisticamente trasfigurato su altrettante tragedie dell'oggi, rimosse e in vari sensi in-dicibili: il crollo di una discarica su una bidonville di Manila, l'incendio di una fabbrica di bambole schiavistica/minorile di Bangkok, gli esperimenti nucleari su popolazione inconsapevole, il commercio di organi di bambini, i morti insepolti e le fosse comuni. Gli autori (ambedue circa quarantenni, un'attività molto densa e critica di compositore elettronico e saggista-teorico per il primo, un impegno pluridecennale altrettanto critico nel campo della poesia per il secondo, che ha anche studiato musica e la usa nelle sue performance) tengono a sottolineare la genesi parallela di musica e testo, che non preesistevano l'una all'altro e non sono perciò da considerarsi rispettivamente accompagnamento o libretto. Il terreno comune di questa genesi, che ha comportato un anno di mezzo di sperimentazione, è quello del ritmo, giocato a vari livelli: dal macroritmo della performance (scandita con chiarezza e buona disposizione degli elementi tra vestiboli d'entrata e d'uscita, oracoli e riflessi), ai medioritmi delle strutture versuali, ovviamente non tradizionali, ma in grado di interagire strettamente con i ritmi predisposti dalla parte elettronica, fino ai microritmi materici di quest'ultima, nella quale l'iterazione dei campioni numerici dei suoni di sintesi si fa completamente timbro. Il gioco costruito sui medioritmi era molto chiaro, e dotato di una sua plastica specifica, negli oracoli, mentre altrove era giocato sul limite tra aperiodicità organizzata (polveri sonore, rumore...) e periodicità smaccata (una sorta di beat ossessivo, frequenze estremamente armoniche...) che era la metafora del confine tra vita e rigor mortis, quel confine sul quale Tiresia vive a lungo prima di reimmergersi nella Terra che l'ha generato. La forma dell'ascolto si apriva appunto dalle sale inferiori dell'installazione, a significare l'origine ctonia di Tiresia, accompagnata nel percorso guidato dalle installazioni visive - oggetti e pannelli - di Matias Guerra che, nella loro concretezza terrigna, sottolineavano l'assunto. Nella traslucida partitura compositiva, asciutta quanto finemente tessuta, trovavano posto (in una tecnica di generazione del suono quasi totalmente sintetica) anche citazioni/campioni di Varèse, altro nume inascoltato e profeta del ritmo della musica del XX secolo.

Interpreti: Di Scipio, Mesa

Regia: Agostino Di Scipio e Matias Guerra

Scene: Matias Guerra

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