Salome in un cerchio di luce

Grande successo all’Opera di Roma per la Salome diretta da Marc Albrecht, ma anche qualche fischio per la regia di Barrie Kosky

Salome (Foto Fabrizio Sansoni)
Salome (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Salome
07 Marzo 2024 - 16 Marzo 2024

Nel buio, prima che il direttore dia l’attacco, si odono per alcuni minuti suoni misteriosi provenienti da tutte le direzioni. Quando il sipario tagliafuoco si alza, compare nel silenzio e nel buio un’immagine anch’essa misteriosa, una donna con un attillato abito bianco e un lungo ciuffo di tentacoli sul capo, che la rendono simile ad un anemone di mare: il significato oscuro potrebbe essere che Salome (perché di lei si tratta) provoca tormentoso dolore a chi viene in contatto con lei? Poi riprendono i suoni, ora più aspri e minacciosi. Fin da questo preludio si intuisce che non sarà un’edizione convenzionale della Salome  di Richard Strauss. È stata creata all’Opera di Francoforte nel 2020 ed è firmata da Barrie Kosky per la regia, Katrin Lea Tag per le scene e i costumi (le prime inesistenti, i secondi pochi e semplici, ma le une e gli altri funzionali alle idee del regista), Joachim Klein per le luci (essenziali, nel duplice significato che sono ridotte al minimo e che sono fondamentali) e Zsolt Horpacsy per la drammaturgia.

Sono eliminati sia il vecchio kitsch biblico sia le invadenti e complicate sovrastrutture architettate dai registi e scenografi attuali: il palcoscenico è una scatola nera, vuota e buia, illuminata soltanto da uno spot (forse un raggio della luna, evocata più volte dal libretto) che è puntato sempre e soltanto su Salome e sui personaggi che di volta in volta vengono a contatto con lei. Nonostante (o grazie a) i mezzi così scarni, Kosky realizza uno spettacolo molto teatrale, che non ha un calo di tensione dalla prima all’ultima nota, puntando tutto sulla psiche dei personaggi e le loro interrelazioni, messe in luce dalla recitazione misurata e allo stesso intensa, forte. Tutto il resto è lasciato letteralmente nel buio.

Salome non è presentata come una “semplice” mangiatrice di uomini ma come una complessa figura di donna, che è in preda ad un’attrazione perversa e non la nasconde ipocritamente ma dice e fa senza inibizioni quello che prova. (È azzardato dire che tutti hanno delle perversioni così estreme ma tutti hanno avuto qualche recondito pensiero indicibile, che hanno taciuto e represso). Nella scena con Jochanaan veste abiti lunghi e luccicanti di paillettes come una diva degli anni Trenta, poi con i genitori indossa un vestitino rosa acceso da ventenne e alla fine una giacchetta e una gonna da collegiale, che rivela come in realtà sia poco più che una ragazzina. Tutti i suoi pensieri e tutte le sue azioni convergono su Jochanaan, l’unico altro personaggio che abbia la statura drammatica per potersi contrapporre a lei, dando vita alla grande scena al centro di questo atto unico, che diventa una sorta di duetto d’amore e di repulsione portati all’estremo. Se generalmente Salome e Jochanaan sono rappresentati come esseri appartenenti a due mondi incomunicabili, lei tutta sensualità e lui inattingibile, chiuso nella corazza del suo dogmatismo e dei suoi anatemi, qui sono invece entrambi racchiusi nel breve cerchio dello spot luminoso, il loro confronto è ravvicinato, Salome lo tocca sul petto, lo abbraccia e anche lui per un momento la riconosce come una persona e non come un essere satanico e ha una reazione umana, cingendole castamente la vita. Amore e odio, attrazione e repulsione si mischiano inestricabilmente in un amalgama letteralmente micidiale.

Anche Herodes e Herodias sono perfettamente centrati dalla regia, lui col suo groviglio di arroganza, crudeltà, incertezza, debolezza e paura, lei che al contrario sa bene quel che vuole. Narraboth è un’apparizione gentile, estranea a quel mondo, e non può che sparire presto, suicidandosi. I cinque giudei, i due soldati e gli altri non sono in realtà dei personaggi ma soltanto delle voci e non li si vede mai.

Molti sono rimasti sconcertati dalla danza dei sette veli, il momento più noto e più atteso dell’opera, che in pratica non si è vista: Kosky infatti rifiuta sia gli imbarazzanti tentativi delle cantanti di cimentarsi in qualche movenza di danza sia gli interventi di qualche ballerina professionista vestita da odalisca. Lascia invece Salome (vestita come una collegiale, proprio ora, nel momento più sensuale) seduta per terra in un angolo del palcoscenico, intenta ad estrarre dal suo corpo una lunghissima treccia di capelli. È forse la ciocca che ha tagliato a Jochanaan e che è cresciuta nel suo intimo fino a diventare chilometrica? Non si sa quale altra spiegazione dare a questa unica nota stonata dello spettacolo.

Per fortuna tutte le note giuste le fa Marc Albrecht, che non vede nella magica orchestrazione di Strauss un prodigio fine a se stesso e ne mette in rilievo la valenza espressiva, sempre aderente al testo. La sua direzione è drammatica, tesa, aspra, violenta ma anche morbida e sensuale, sempre teatrale nel senso migliore del termine, al punto da rinunciare, quando occorra, al primo piano che potrebbe facilmente arrogarsi e mettersi al servizio delle voci. Voci che a loro volta si mettono al servizio dei personaggi. Lise Lindstrom coglie perfettamente la complessa e contorta personalità di Salome con la sua voce capace di una gamma infinita di sfumature e varietà di accenti: poco importa che agli acuti pieni e sicuri non corrisponda un registro medio-grave altrettanto compatto. E ha anche invidiabili dote di attrice. In poche parole, un’interprete carismatica e affascinante, al pari del basso-baritono Nicholas Brownlee, che fa di Jochanaan un essere umano, quindi più empatico del tonitruante profeta che si ascolta solitamente. John Baszak (Herodes) e Katarina Dalayman (Herodias) interpretano magistralmente la coppia regale facendone due vecchi e litigiosi coniugi borghesi, con lui che crede di comandare, mentre chi comanda veramente è lei (è Strauss stesso a non risparmiare il sarcasmo nei loro confronti). La voce latina del tenore Joel Prieto si confà perfettamente all’amore spontaneo e appassionato di Narraboth. Bene anche Karina Kherunts (il paggio) e la folta schiera di comprimari.

Merita assolutamente un elogio anche l’orchestra del Teatro dell’Opera, che Albrecht ha guidato in una prestazione eccellente, energica ma duttile, scattante ma sensuale, al netto (ad essere proprio pignoli) di qualche momento non nitidissimo ma non meno efficace nei momenti più intricati.

Il pubblico che gremiva il teatro ha applaudito gli interpreti della parte musicale con grande e meritatissimo entusiasmo, mentre per Kosky e la sua squadra non sono mancati i fischi, com’è scontato per ogni regia moderna.  

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Non una sorta di bambino prodigio ma un direttore d’orchestra già maturo, che sa quello che vuole e come ottenerlo

classica

Nuova opera sul dramma dell’emigrazione

classica

Napoli: per il Maggio della Musica