Printemps des Arts, ouverture per concludere

Il racconto del festival monegasco, fra il piano di Hélène Grimaud e un concerto dedicato a Hector Berlioz

Recensione
classica

La primavera a Montecarlo, come in tutto il Mediterraneo, è sicuramente una stagione meravigliosa: e ci siamo tornati, lo confessiamo, con l'animo e il desiderio di assaporare, insieme, il suo clima, la sua atmosfera placida, propria di un luogo un po' irreale, e le raffinate programmazioni che ogni anno il Printemps des Arts ci riserva, per la direzione artistica di Marc Monnet che ormai prosegue ininterrotta dal 2003. Programmazioni che sviluppano approfondite escursioni monografiche, con importanti squarci del repertorio contemporaneo, finanche quello etnico tradizionale ed intense maratone pianistiche.

Nell'ultimo fine settimana del festival, ci siamo quindi "imbattuti" in un recital di Hélène Grimaud, nelle polifonie rinascimentali dei belgi dell'Huelgas ensemble e nel tutto Berlioz delle ouverture (autore a cui quest'anno è dedicato il focus dell'annuale Portait), con l'orchestra monegasca diretta dal suo direttore stabile, Kazuki Yamada.

Nel presentare il suo ultimo progetto discografico, intitolato Water, la Grimaud costruisce un'idea di recital pianistico sicuramente insolito e che si prefigge di creare una particolare tensione ermeneutica e un suo personale itinerario poetico. Il tema è appunto quello dell'acqua, assai caro a musicisti di tutte le epoche e tendenze. La pianista francese lo fa proprio, lasciando da parte elementi di carattere descrittivo e costruendo una sorta di poema della fluidità: fanno capolino Bergson e Bachelard e tutta una cultura filosofica e psicanalitica per le quali l'acqua è stato uno degli elementi di importante valenza simbolica.

Tutta la prima parte del concerto si basa sull'esecuzione di brani eseguiti, quasi senza soluzione di continuità, come se fossero i movimenti di un'unica lunga suite, questa: Wasserklavier di Berio, Rain Tree Sketch II di Takemitsu, Barcarolle n. 5 di Fauré, Jeux d'eau di Ravel, Almeria di Albéniz, Les jeux d'eau à la Villa d'Este di Liszt, In the Mists di Janácek e La cathèdrale engloutie di Debussy per poi, nella seconda parte, concludere con il Brahms della Sonata in fa diesis minore n. 2 op. 2. C'è un respiro unico che attraversa questi brani, che quasi si compenetrano, a opera di una lettura pianistica quasi "mimetica", che in qualche modo ci fa intravedere elementi di affinità tra brani e autori così distanti. Mirabile il passaggio tra Berio e Takemitsu, così come la sequenza Ravel-Albéniz-Liszt o la chiusa della prima parte con il passaggio dalle fluttuanti goccioline di Janácek alle profondità acquatiche della Cathèdrale.

È una lettura particolarmente introversa che in qualche modo uniforma il quadro della sequenza, facendoci però vedere in essi qualcosa di nuovo ed insolito. Nello stesso tempo il Brahms che conclude il recital si discosta da questo quadro, presentandosi come un'interpretazione che sicuramente si fa via via più estroversa, incisiva e con un'articolazione di straordinaria nitidezza.

Anche se non vogliamo farci condizionare dall'apparenza del gesto o dalla postura, colpisce l'approccio decisamente sobrio della pianista, nel modo di presentarsi e di presentare, che in qualche modo confermano un'intenzionalità che va nella direzione di un approccio interpretativo decisamente antiretorico, che sta agli antipodi di quello delle tante star, o di pianisti-giocolieri di cui è costellato l'attuale panorama concertistico.

Il giorno dopo chiacchieriamo alla fine di una full immersion nel mondo della polifonia rinascimentale (Palestrina, Le Jeune, Gombert, Di Lasso) con Isabelle Ragnard, docente alla Sorbona e al Conservatorio parigino; commentiamo il titolo di una Messa di Palestrina, “ut re mi fa sol la”: già, cos'altro di nuovo si poteva inventare sul tema della messa se non una semplice scala, un musicista che su questo testo per tutta la sua vita si cimenterà più di cento volte?

Illuminante e brillante la presentazione della Ragnard, di grande spessore l'esecuzione del Huelgas ensemble diretto da Paul Van Nevel, nella cornice dell'Eglise St. Charles. Semplicemente perfetti nell'equilibrio delle dinamiche, nel far percepire il gioco combinatorio e la distribuzione delle voci; così come ad esempio il vortice delle imitazioni che si intensifica progressivamente, nel Sanctus della Messa di Palestrina o per come lo stesso impeto imitativo, nel bellissimo "Tous les Regretz" di Gombert volge ad una dimensione straniante e di sogno; mentre le distese omofonie di Le Jeune ci presentano un altro volto della chanson francese. Concerto intenso e godibilissimo che conclude con una mirabile interpretazione delle Lamentazioni di Geremia di Orlando di Lasso.

Una bellissima mostra di strumenti a fiato del'Ottocento, nel foyer dell'Auditorium Ranieri III, ci introduce nel mondo strumentale, ricco di innovazioni e di ricerche che fu quello che visse un musicista come Berlioz e di cui egli si avvalse tantissimo per potenziare il suono delle sue orchestre: vediamo tra gli altri, preziosissimi, i primi flauti Bohem in ebano, dei serpentoni, i primi saxofoni e le incredibili sperimentazioni di quel genio che fu Adolphe Sax.

Nell'Auditorium quindi i "cinque minuti di musica contemporanea", che aprono ogni concerto sinfonico della rassegna di quest'anno, spettano al movimento Hora lunga della Sonata per viola di Ligeti: una specie di meditazione/orazione del musicista ungherese, fatta di lenti passaggi microtonali, eseguita con suono intenso dalla violista lituana Ieva Sruogyté.

E il concerto sinfonico che chiude il festival è composto, tutto, da ouverture di Hector Berlioz: a parte l'ossimoro che può risultare intrigante di tale proposta, alla fine della serata si ha la sensazione che si debba sempre iniziare un'altra volta, con un'altra ouverture... Ciò nonostante, sicuramente, il programma esaurisce le esigenze monografiche che illustrano un determinato panorama e l'evoluzione di un certo tipo di scrittura sinfonica.

L'orchestra di Montecarlo è un'ottima compagine diretta con grande precisione da Yamada, che dimostra una notevole capacità di controllo e di gestione della macchina orchestrale. Del Benvenuto Cellini abbiamo apprezzato il vigore e l'enfasi lirico drammatica; un'enfasi che tuttavia anche nella solennità di un'ouverture come quella dei Troiani, il direttore giapponese dirige senza particolari abbandoni lirici. Come un cammeo si è inserito un pezzo carico di valore espressivo come Rêverie et Caprice per violino e orchestra, mirabilmente eseguita da Liza Kerob, primo violino dell'orchestra monegasca, qui nel ruolo di solista. Il clima danzistico e l'agilità di un'ouverture, come quella di Béatrice et Bénédict, sono stati quelli che in definitiva hanno sancito, pomposamente e con vigore, l'esplosione di questa "ouverture finale" salutata con successo e numerosi richiami dal pubblico.

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