Modena: successo per Otello

Ottima la prova di Kunde e Micheletti

Otello (Foto  Rolando Paolo Guerzoni)
Otello (Foto Rolando Paolo Guerzoni)
Recensione
classica
Modena, Teatro Comunale “Pavarotti-Freni”
Otello
11 Gennaio 2024 - 14 Gennaio 2024

L’Otello verdiano che sta girando fra i teatri dell’Emilia (in dicembre a Piacenza, ora a Modena e successivamente a Reggio), è un classico esempio di come i cosiddetti “teatri di tradizione” sappiano oggi produrre spettacoli operistici più convincenti di quanto riescano in molti casi le più blasonate Fondazioni liriche. Il Don Carlo che in novembre ha girato fra Modena, Piacenza, Reggio e Rimini n’era un ulteriore esempio, segno che non si tratta di casi isolati, e che i successi produttivi riguardano anche i titoli più complessi, come quelli dell’ultimo Verdi. I motivi che favoriscono l’alto livello artistico possono essere tanti e variabili, non ultimi quelli di natura circostanziale, come le locations che si avvalgono di eleganti teatri ottocenteschi di limitata dimensione e la natura del pubblico tutto locale, di comprovata consuetudine, raccolto – in particolare per le recite domenicali – con una fitta rete di torpedoni provenienti dai centri minori della Padania (un pubblico che partecipa poi con particolare calore allo spettacolo, al contrario del turista occasionale che affolla oggi le platee dei maggiori teatri italiani).

Ciò che si apprezzava anche in questo Otello – come del resto in quel Don Carlo – è la qualità del lavoro di squadra, la coesione d’intenti, l’intelligenza nella scelta del cast vocale (perlopiù italiano o di comprovato stile italiano), grande professionalità nella concertazione musicale, una lettura registica strettamente uscita dalle ragioni del testo inscenato e non calatagli sopra dall’alto come oggetto ad esso estraneo. Il che dovrebbe essere il punto di partenza per ogni produzione, mentre oggi è già un successo quando raggiunto come punto di arrivo.

L’interesse che, sulla carta, attirava principalmente verso questo spettacolo è di natura vocale. Gregory Kunde, nella sua terza giovinezza canora, ha finalmente ricondotto a “normalità” e “quotidianità” quel ruolo di Otello che per decenni è stato lo spauracchio d’ogni tenore, avallandosi in passato esecuzioni volgari o precludendoci interpretazioni alternative da parte di artisti che non l’hanno osato. In bocca a Kunde (70 anni il mese prossimo) le frasi più impervie che abbiamo nelle orecchie come sempre inadeguate – urlate o incerte – diventano brillanti e naturali, cosa che ti permette di arrivare alla fine dello spettacolo evitando tre ore di sofferenza d’ascolto. A fronte di tanta padronanza vocale, l’Otello di Kunde non è tuttavia un personaggio psicologicamente sicuro di sé: quella sua presenza scenica ormai poco atletica, un po’ impacciata nei movimenti, e una gestualità decisamente antieroica ce lo rendono umanissimo, uno di noi, schiacciato dai mali del mondo.

Al suo fianco, Jago emerge quindi ancor più potente, minaccioso; e se Jago si chiama Luca Micheletti, l’effetto è della massima efficacia, grandioso, irresistibile. Non siamo di fronte a un cantante: Micheletti è un attore a tutto tondo, un vero attore che recita col corpo, coi gesti, con la mimica facciale, con la parola e la sua intonazione; la quale, nella fattispecie, è un’intonazione musicale, ma che in bocca a lui risuona come una spontanea enunciazione della frase verbale. In tutto questo, dire allora che Micheletti è vocalmente perfetto come baritono sembra quasi sminuirne il valore artistico. Il suo racconto del sogno di Cassio («Era la notte») valeva l’intera serata, con l’inedita stimbratura della voce che nel discorso diretto imita e irride il tenorino luogotenente e la variante non scritta in partitura – ma prescritta da Verdi – della seconda citazione sprofondata all’ottava inferiore: una variante che i baritoni disdegnano perché in zona scomoda, e che Micheletti fa invece sua, applicandole quella grinta diabolica con cui giunge a stravolgere persuasivamente il timbro della sua bella e calda voce. Cos’altro potresti pretendere da un interprete, se non che interpreti?

Fra queste due inarrivabili colonne, la Desdemona di Francesca Dotto fa pure la sua bella figura. La voce è intatta, scattante, sempre sicura; la presenza scenica è importante, capace di mettere a dura prova la debolezza di Otello: una Desdemona meno matronale di quella cucita da Verdi, meno petulante di quella di Shakespeare, ma grintosa, volitiva (donna moderna, la diremmo).

Gran bel lavoro anche quello di Leonardo Sini alla guida dell’Orchestra Toscanini: 34 anni, appena 5 di carriera, ma tanta sicurezza nel tenere coeso lo spettacolo. Non è di quei direttori che ti spremono la partitura facendone uscire quasi provocatoriamente un controcanto che non avevi mai udito; nondimeno i suoi momenti originali ce li ha (un accento insolito, un rallentando inatteso), ma sempre discreti e opportuni, badando soprattutto all’unità del risultato. Bravo davvero.

Regia di Italo Nunziata: modalità, ritmi, sobrietà da teatro di prosa (ed infatti la dimensione del coro è quella meno risolta sul piano visivo, per quanto sia di pregio l’apporto vocale del Coro del Teatro Municipale di Piacenza). È una lettura nobilmente classica, perfettamente servita dall’impianto scenico di Domenico Franchi, concentratosi su grandi pannelli rugginosi che scorrono da un lato all’altro del palcoscenico, delimitando e diversificando gli spazi con efficacia. Costumi di Artemio Cabassi, innegabilmente molto belli e raffinati, ispirati alla moda ottocentesca: ma ti chiedi il perché di tale scelta, cosa guadagnano alla narrazione che già non fosse presente in Shakespeare e che ispirò l’immaginazione di Boito e Verdi. Come effetto generale, imborghesiscono i personaggi e imprimono particolare eleganza al lungo dialogo fra Otello e Jago nel secondo atto: se questo basta a giustificarli, rendono poi di certo ancor più fascinosamente irresistibile Jago, più vulnerabilmente quotidiano Otello (privato della pelle scura).

Pubblico rumorosissimo, come sempre più spesso tocca lamentare girando per i nostri teatri, a discapito della concentrazione d’ascolto: colpi di tosse infiniti e sguaiati, minimamente trattenuti; cellulari che vibrano ripetutamente, che s’illuminano nel buio o tonfano per terra; porte dei palchi sbattute da gente che entra ed esce, una signora che attraversa l’intera platea per prendere posto a spettacolo già avviato; e poi le solite caramelle scartocciate sui pianissimi e i commenti continui col vicino per far sapere a tutti quanto noi, in Emilia, ne capiamo di voci...

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