A Lugano “Anna Bolena” è originale

Al LAC Diego Fasolis dirige l’opera di Donizetti senza tagli e con strumenti d’epoca in un allestimento di Carmelo Rifici

Anna Bolena (Foto Masiar Pasquali)
Anna Bolena (Foto Masiar Pasquali)
Recensione
classica
Lugano, LAC
Anna Bolena
04 Settembre 2023 - 10 Settembre 2023

Sceglie Donizetti il LAC di Lugano per il suo terzo titolo operistico, che resta unico in una stagione musicale generosa soprattutto di offerta sinfonica, dopo Il barbiere di Siviglia del 2018 e La traviata  della scorsa stagione, seguita alla pausa forzata causa pandemia. Anna Bolena, composta per la stagione di Carnevale 1830 del milanese Teatro Carcano, che gli mise a disposizione mezzi generosi (compresi due grandi divi come Giuditta Pasta per Anna Bolena e Giovanni Battista Rubini per Percy), segna la consacrazione definitiva del compositore bergamasco presso il pubblico non solo italiano. “Successo, trionfo, delirio, pareva che il pubblico fosse impazzito. Tutti dicono che non ricordano di aver assistito mai ad un trionfo siffatto. Io ero così felice che mi veniva da piangere, pensa!”, scrive Donizetti all’indomani della prima il 26 dicembre 1830. Dopo la sconclusionata Chiara e Serafina del 1822 e l’esotica Alina regina di Golconda del 1828, la terza collaborazione con Felice Romani fa il colpaccio, grazie a un intreccio ricco di spunti drammatici e con una tensione crescente costruita in maniera sapiente. Il successo milanese la proietta non solo nei principali teatri dell’Italia settentrionale ma rapidamente anche all’estero. La sua popolarità dura parecchi anni prima di un temporaneo declino, seguito dal rilancio e dalla consacrazione definitiva nel 1957 alla Scala con la Callas protagonista (e Gianandrea Gavazzeni sul podio), che la impone come opera da primedonne, spesso a scapito degli altri ruoli sacrificati da pesanti tagli.

Uno dei meriti della nuova edizione andata in scena a Lugano è l’intenzione di restituire a questo lavoro la sua autenticità. La mente musicale della produzione luganese, Diego Fasolis, riapre infatti la gran parte dei tagli della tradizione recente, oltre a proporre una versione storicamente informata, con diapason a 430 Hz e strumenti d’epoca, scelta consueta per i suoi Barocchisti, che in occasione di questa per loro inedita incursione nel primo Ottocento vengono ribattezzati in I Classicisti. Se i tempi imposti da Fasolis sono spesso molto spediti, di piglio si direbbe guerresco (con le percussioni in grande evidenza), il suono è più leggero e il colore orchestrale più chiaro, soprattutto nei fiati, il che dà maggiore agio alle voci, tutte di qualità ma aiutate anche dal diapason basso. Ne beneficia sicuramente il Percy di Ruzil Gatin, il migliore in campo, tenore dal bel timbro radioso e dallo squillo generoso, ma non più della protagonista Carmela Remigio, che se la deve vedere con la rivale Arianna Vendittelli, Giovanna Seymour in versione sopranile, la prima con più tempra drammatica e la seconda più cantante, ma entrambe perfette nel drammatico duetto del secondo atto. Molto riuscite anche le prove di Marco Bussi, un Enrico VIII di forte carattere, di Paola Gardina, un delicato Smeton, di Luigi De Donato, Rochefort, e Marcello Nardis, Sir Hervey. Di rilievo gli interventi del Coro della Radiotelevisione svizzera preparato da Donato Sivo.

Nel complesso, questa Anna Bolena, che sfiorava le quattro ore di durata, intervallo compreso, rendeva giustizia a tutti gli interpreti e guadagnava sul piano di un maggiore equilibrio drammaturgico. Una Bolena, dunque, ripulita dai sedimenti della tradizione, che il regista dell’allestimento luganese (coprodotto con i teatri di Modena, Piacenza e Reggio Emilia, dove lo spettacolo si vedrà in febbraio) Carmelo Rificitraduce nell’immagine di un volto piangente di donna lentamente riportato in luce dalla paziente ripulitura di due restauratori in camice bianco. Il colore antico si ritrova soprattutto nei costumi di Margherita Baldoni, che comunque privilegia linee essenziali ed evita qualsiasi pedanteria filologica. Invece lo scenografo Guido Buganza inventa un dispositivo girevole dal design sobrio ma fatto di quinte scorrevoli, passaggi segreti, porte a scomparsa e molto altro, estremamente funzionale alla fluidità del racconto scenico, ben condotto dal regista e nel segno di un certo rigore figurativo ma con qualche scivolamento su esuberanze grandguignolesche e su iperboli visionarie di ispirazione pittorica, che bloccano l’azione in tableaux vivants ben poco maestosi.

Pubblico numeroso alla prima e generoso di applausi per tutti alla fine della lunga serata.

 

 

 

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