La fortuna di Tri Sestry, capolavoro operistico tra Cechov e il Giappone

Recensione
classica
La Monnaie Bruxelles
Peter Eötvös
08 Marzo 2002
Quando nel 1998 ho assistito alla prima di Tri Sestry (tre sorelle) a Lione, ho subito avuto l'impressione di essere di fronte a un autentico capolavoro. Poi ci sono stati altri allestimenti, e riprese, in diversi teatri europei - l'ultima in ordine di tempo allo Châtelet - e l'edizione discografica della Deutsche Grammophon, nella collana 20/21 (2 cd 459 694). A distanza di quattro anni l'opera di Peter Eötvös è andata in scena anche a Bruxelles, al Théâtre de la Monnaie, e ha mostrato ancora tutto il suo potere di seduzione. Il compositore (e direttore d'orchestra) ungherese ha costruito la sua opera su un libretto in lingua russa ("lingua eminentemente musicale"), rimontando il dramma di Cechov in tre sequenze, ciascuna incentrata su un diverso personaggio (Irina - Amdrèj - Masha), e affidando i ruoli delle tre sorelle e della terribile cognata Natasha ad altrettanti controtenori. La partitura si presenta come un grande madrigale a 13 voci, tutte maschili (con una trama vocale compatta che si estende su tutte le tessiture: dal basso profondo della balia Anfisa, altro ruolo en travesti, alle sorelle-controtenori, e della cognata) accompagnato da una doppia orchestra: un piccolo ensemble nella fossa e un vero e proprio organico orchestrale collocato dietro il fondale che aveva una doppia funzione: quella di diversificare i colori strumentali, e quella di ampliare lo spazio acustico creando spesso un secondo piano (associato ad esempio ai momenti nei quali l'azione passa dall'interno all'esterno) e una dimensione stereofonica ("è un po' l'effetto del dolby surround trasportato nell'opera!"). Eötvös ha creato una perfetta geometria di emozioni, basata su sapienti alchimie timbriche, ricorrendo anche a strumenti come il pianoforte elettrico, il campionatore, la fisarmonica (i suoi clusters assomigliavano alle armonie di uno sho giapponese). Ma lo spettacolo non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo senza il tratto, insieme essenziale e sofisticato, della regia di Ushio Amagastu, delle scene Natsuyuki Nakanishi, dei bei costumi di Sayoko Yamaguchi. Un Chekov alla giapponese (commistione non casuale, ma già immaginata dal compositore, che era stato molto suggestionato dalle coreografie di Amagatsu e dalla sua compagnia Sankaï Juku), in uno spazio scenico spoglio, minimalista, punteggiato da elementi simbolici, delimitato da grandi pannelli bianchi, simili a paraventi giapponesi, traforati da costellazioni di punti che parevano disegnare segreti percorsi, paesaggi immaginari. Cast impeccabile, nel quale si è ammirata la bravura del sopranista ucraino Oleg Riabets (Irina), dotato di una strabiliante duttilità vocale, la verve di Gary Boyce (Natasha) vera esplosione di energia vocale e teatrale (Natasha), il fraseggio espressivo e dolente di Lawrence Zazzo (Macha), il bel timbro e l'intenso lirismo di Albert Schagidullin (Andrèj). Alla fine interpreti e compositore (che ha diretto l'opera insieme a Roland Boër) sono stati sommersi dagli applausi. Quando sarà normale anche in Italia applaudire in un teatro d'opera un capolavoro come questo?

Note: in coproduzione con L'Opéra National de Lyon e il Theâtre du Châtelet di Parigi

Interpreti: Ryabets, Zazzo, Aubin, Boyce, Dalal, Drabowicz, Schagidullin, Storojev, Hall, Waddington, Alofs, Grigorev, Serkin

Regia: Ushio Amagastu

Scene: Natsuyuki Nakanishi

Costumi: Sayoko Yamaguchi

Orchestra: Orchestre Symphonique de La Monnaie

Direttore: Peter Eötvös / Roland Böer

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