Gli inglesi americani a Milano

Mumford & Sons, rivelazione dell'anno, al Teatro dell'Arte

Recensione
pop
Il Teatro dell’Arte in Triennale ha la platea senza sedie, sembra quasi una ballroom all’americana, col parquet e la balconata tutta intorno. Troppo attraente per i possessori del biglietto gradinata, che infatti – in massa – scendono dopo una rapida occhiata verso il basso. Hey, è un concerto rock, che diamine! Così il suddetto concerto rock comincerà con quasi quaranta minuti di ritardo, solo dopo ripetuti e fischiatissimi inviti a salire e sedersi in balconata, su indicazione dei Vigili del Fuoco. È per la sicurezza, dicono. Eppure di sotto c’è davvero molto, moltissimo spazio, tanto da farmi dubitare che il sold out annunciato fosse reale.
Tant’è che forse è anche grazie a questo lungo ed estenuante braccio di ferro che l’applauso al gruppo di apertura è un’ovazione catartica. Questi cinque ragazzi - guidati da uno svedese, ma da anni londinese a tutti gli effetti - ne sono quasi sorpresi. Fanfarlo, si chiamano e sono una piccola ma sostanziosa rivelazione indie-pop. Canzoni ben scritte, look da marinaretti e mille strumenti: tastiere, violino, tromba, glockenspiel, melodica, basso, chitarre, mandolino. Impressiona in particolare l’unica ragazza, Cathy Lucas, che suona (e bene) buona parte degli strumenti sopra citati. Freschi del concerto bolognese prima degli Arcade Fire, annunciano che quella milanese è l’ultima esibizione dopo due anni di tour ininterrotto. Provo a immaginarmeli questi ragazzi, poco più che ventenni, tornare a casa dopo il giro del mondo. Chissà se la parola casa ha ancora qualche senso per loro. Escono dopo un bel set, per i miei gusti con due canzoni di troppo, ma godibile, ben suonato. Non è che ti stendono al tappeto, però fanno una bella impressione e il pubblico gli regala molti decibel di applausi.
Appena il tempo di una birra e arrivano Mumford & Sons, uno dei gruppi dell’anno in ambito indipendente. Sono in linea, uno di fianco all’altro, tipo Rolling Thunder Revue, e attaccano in coro, alla Crosby Stills Nash & Young. Ecco, quindi, un altro gruppo londinese, ma che di inglese ha davvero ben poco, persino nella pronuncia. Mumford & Sons suonano una specie di bluegrass aggiornato al 2010, con tanto di banjo elettrico, contrabbasso, chitarra acustica con accordatura aperta e grancassa. E cori, elemento ormai quasi d’obbligo (vedi alla voce Fleet Foxes, Grizzly Bear etc.). Il disco, bellissimo, viene suonato per intero, inframezzato qua e là da qualche nuova canzone. Marcus Mumford, leader vero con look anni Cinquanta, ha voce bella e carisma da vendere. E ogni volta che spinge il piede sul pedale della grancassa il pubblico va fuori di testa. Ecco. Questi quattro londinesi travestiti da agricoltori del Midwest americano non fanno niente di nuovo, ma hanno belle canzoni, sincere (credo) e le suonano da dio. Tripudio finale e parole quasi commosse da parte loro, che di certo non si aspettavano alla seconda apparizione italiana una simile accoglienza.

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