Glass, la bellezza della ripetizione

Philip Glass apre la quinta edizione del Festival della Bellezza al Teatro Romano di Verona con tre composizioni pianistiche

Philip Glass - Foto di Sergio Visciano
Foto di Sergio Visciano
Recensione
classica
Teatro Romano, Verona
Philip Glass
27 Maggio 2018

Quando, sul palco del Teatro Romano di Verona – per l’evento d’apertura della quinta edizione del Festival della Bellezza – l’intervistatrice chiede a Philip Glass di descrivere la bellezza in musica il compositore americano, dopo un attimo di incertezza, passa la domanda a Dennis Russell Davies, accanto a lui, che se la cava con un diplomatico…facciamo parlare la musica.

Al di là della insidiosità del quesito, probabilmente in quell’attimo di silenzio Glass si è rivisto a Parigi nel 1966, fresco di diploma, incontrare Ravi Shankar. Ne diviene assistente e per lui che ama comporre si apre un mondo, è l’incontro della vita. Con il grande maestro indiano Glass comprende che si può comporre senza fare riferimento al formalismo seriale, allo strutturalismo, agli obblighi di sviluppi tematici. Che la musica si può sganciare dalla logica occidentale,  si può rovesciare, che nelle culture delle musiche altre, in particolare quelle orientali e africane, attraverso il raga indiano e il gamelan balinese (depurati dai loro valori mistico-religiosi) si possono aprire nuovi orizzonti compositivi.

Philip Glass - Foto di Sergio Visciano
Foto di Sergio Visciano

Con queste convinzioni Glass, insieme ad altri compositori – Steve Reich, La Monte Young, Terry Riley – dà vita al cosiddetto movimento minimalista (in realtà il termine fa riferimento originariamente alle arti figurative) che sviluppa una nuova estetica, si contrappone al serialismo viennese, qualcuno parla addirittura di “nuova tradizione americana”.

L’uso di brevi, semplici cellule sonore tonali o modali, la loro costante ripetizione con minime alterazioni, microvariazioni di altezze, dinamiche e timbri disegnano un nuovo estraniante panorama sonoro. I pregiudizi dal chiaro taglio eurocentrico, che ancora resistono rispetto a queste novità stilistiche, fondamentalmente risentono di un approccio errato, quello dell’uso di modelli teorici e percettivi occidentali, lontani anni luce dalle suggestioni compositive e creative dei minimalisti che guardavano soprattutto all’Oriente e all’Africa. Di questo movimento Glass è l’esponente più noto a livello planetario, grazie non solo ad una sconfinata produzione come a una subito riconoscibile identità stilistica ma anche al suo costante e ricco interscambio di idee e progetti con artisti di ogni forma d’arte (Martin Scorsese, Allen Ginsberg, Woody Allen, David Bowie, Paul Simon, Richard Serra, Sol Le Witt, Doris Lessing, Paul McCartney, Brian Eno, Laurie Anderson…). Un intellettuale a tutto tondo.

Con queste premesse, questa storia, era chiaro che al Teatro Romano di Verona si incontrasse un vasto pubblico, non solo dal punto di vista numerico (teatro sold out da giorni), ma anche variegato e trasversale sul fronte generazionale. La serata offertaci dal Festival della Bellezza risulta preziosa non solo perché ci presenta uno dei compositori che ha cambiato la direzione della musica del Novecento, a ottantuno anni ancora attivissimo, ma anche perché il repertorio pianistico programmato, che va dal 1979 al 2008, ci aiuta ad entrare nella filosofia della sua musica.

Philip Glass - Foto di Sergio Visciano
Foto di Sergio Visciano

Dennis Russell Davies e Maki Namekawa collaborano da molti anni con Glass, conoscono bene il suo repertorio. Aprono con Four Movements for Two Pianos (2008) e l’attacco non è dei più convincenti. La musica di Glass si sviluppa in modo matematico, è come una ragnatela prima esile che poi lentamente cresce, accumula suoni, strutture e ritmi, che stanno tutti dentro una logica compositiva. Se gli incastri non funzionano si perde il senso complessivo. Il primo movimento è in parte compromesso da qualche imperfezione negli attacchi, nel dialogo tra i due pianoforti, poi tutto torna nell’alveo di una corretta interpretazione. L’opera espone uno sviluppo meno rigido rispetto alle opere giovanili di Glass, possiede un proprio senso “romantico”, improvvise escursioni ritmiche, spazi aperti, ma anche introspettivi con qualche quasi silenzio. Il finale sorprende con un ironico riferimento accademico. 

Mad Rush (1979) è tra le composizioni per piano solo più note. Nella sua brevità – il compositore americano se ha bisogno di tempo se lo prende, Einstein on the Beach dura oltre cinque ore –  sintetizza bene la trama compositiva, le sue fascinazioni. Una cellula accattivante, anche troppo, su un tappeto accordale morbido. La sua ripetizione, con impercettibili sfalsamenti di tonalità, la rende leggera, aerea, circolare. Quando la cellula rimane sospesa un’accelerazione ritmica, una cascata luminosa di arpeggi la spinge in secondo piano, ritmicamente la travolge. Questa rotazione di ambienti e contrasti rende l’opera non solo piacevole ma anche problematica in un andamento che crea reazioni emotive. Si potrebbe anche dire, sfiorando la banalità, che Glass suona bene i propri brani. Scolpisce i suoni, esalta i vuoti, in una gestualità, un carisma ancora intatto.

Glass ha scritto molto per il cinema, il teatro, il balletto. La proposta della Suite from “Les Enfants Terrible”: A dance opera for ensemble, solists and dancers (1996) ci fa capire come la pulsione ritmica di Glass, con tre pianoforti, possa risultare congeniale per il balletto contemporaneo, nel mettere in gioco corpo e gesto. Ma anche senza corpi e gesti l’opera funziona alla grande nella sua fantasmagorica accumulazione di ritmi, intrecci, scorribande che costruiscono uno sviluppo drammatico che può rimandare al Bolero di Ravel. Tra l’altro lo stesso Glass in una intervista, rispetto a Les Enfants, ha dichiarato che l’uso della lingua francese (Jean Cocteau) ne ha modificato sensibilmente sviluppo ritmico e andamento melodico. La lingua che con le sue inflessioni condiziona la scrittura musicale. Non solo, l’opera sottolinea anche come i minimalisti a fronte di una scelta compositiva caratterizzata da uno spiccato rigore formale, trasmettano nella ripetizione, oltre l’elemento tecnico, una forte logica visionaria, senso del rito, misticismo e spiritualità.

Se oggi si può dire che l’etichetta minimalista risulti abbastanza sbiadita pur avendo disseminato nella musica del Novecento strade nuove e suggestioni, il concerto al Festival della Bellezza ci ha fatto riflettere su come questa estetica con l’uso della ripetizione si sia contrapposta all’idea occidentale della complessità e della variazione, aprendo una diversa idea di percezione del bello. Se il bello è piacere allora il minimalismo è ancora attualissimo quando ci invita a scoprirlo curiosi e liberi anche nei risvolti più inquieti di un suono ripetuto. 

Philip Glass - Foto di Sergio Visciano
Foto di Sergio Visciano

 

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