Buon compleanno, Salvo 

Con una tre-giorni e una prima italiana, il Massimo di Palermo festeggia i 70 anni di Sciarrino 

Superflumina di Sciarrino al Massimo di Palermo
Superflumina di Sciarrino al Massimo di Palermo
Recensione
classica
Teatro Massimo di Palermo
Superflumina di Sciarrino
01 Novembre 2017 - 03 Novembre 2017

Il Teatro Massimo di Palermo concentra in tre giornate di programmazione un omaggio a Salvatore Sciarrino per i suoi 70 anni, allestendo in prima italiana Superflumina, opera andata in scena per la prima volta al Nationaltheater di Mannheim nel 2011 e completata l’anno prima. 

Ampio atto unico, Superflumina richiama nel titolo il verso salmodico, ma ancor le fiumane d’umanità che attraversano il tempo perdendosi o annullandosi nel flusso; lo sradicamento, lo smarrimento rimane così una modalità autentica di vivere tale esperienza, e si declina nel personaggio-perno di una Donna, lacerata da un vissuto tragico (affiorano dal passato eventi frantumati, un amore che l’ha respinta, e un bambino misterioso). La Donna dimora alla stazione, dove le fiumane la travolgono o la evitano, un poliziotto incrudelisce, e voci impersonali snocciolano annunci insensati. Da un tramonto all’alba, si snodano azioni o visioni allucinate, in una struttura a specchio (quattro quadri e due intermezzi) al cui centro stanno tre ‘canzoni’, nelle quali la Donna canta lo stato sempre uguale delle notti della senza-casa. 

La regia (con scene e costumi) di Rafael Villalobos colloca la maggior parte dell’azione, anziché sul palcoscenico, nella platea, svuotata delle sedie: rimangono solo quelle perimetrali, dalle quali lo stesso pubblico è chiamato a compiere due azioni di attraversamento del non-luogo; un doppio-proiezione (una donna con il costume dell’uomo agognato) si muove nello spazio complementare a quello della Donna (platea/palcoscenico), a meno che il boccascena non sia chiuso da una cortina efficace quale serranda della chiusura notturna della stazione, meno nelle proiezioni che vi si affacciano riproponendo pochi moduli visivi. Il palco è lo spazio del coro, che ha materializzato – bene – il visionario mondo sonoro di Sciarrino leggendo a spartito, mentre l’orchestra – ottima, sotto la guida del sempre sicuro Tito Ceccherini – è nella posizione di mediazione tra i due spazi. Qualche compromesso è stato inevitabile, perciò, nell’azione entro lo spazio scenico: solo una parte del coro ha agito nella platea, dove una decina di figuranti-replicanti in abito da ‘Man of the City’ londinese snocciolano, con lente iterazioni, gli atti del disprezzo e del dominio; il coro sul palcoscenico può far poco, e il progetto estetico sembra quello di fornire un riflesso rigoroso della costruzione della partitura di Sciarrino, con la manipolazione di un novero ristretto di figure in uno spazio-tempo paradossale, allucinato e inquieto, teso e compresso. Quasi tutto dev’esser retto, anche scenicamente, dal personaggio principale: un motivo in più per lodare Valentina Coladonato in un ruolo così impervio, e in una vocalità in cui la parola torna a reclamare un’alta chiarezza fonetica. Parimenti buona la prova degli altri interpreti in scena. 

L’interesse della tre-giorni  consisteva  anche nella ri-articolazione degli spazi performativi dentro il Teatro Massimo: la kermesse si era aperta (1.11) con l’integrale della produzione flautistica di Sciarrino, distribuita in tre sale del teatro (esecutori, Matteo Cesari e Manuel Zurria); e si è chiuso, di nuovo nella sala principale svuotata in platea, con La bocca, i piedi, il suono, per quattro sassofoni contralti e ensemble di 100 sax in movimento. Forse, la collocazione del pubblico per questo brano – similmente ai suoi gemelli flautistici – era pensata entro un perimetro segnato dai quattro sassofoni solisti. Stavolta, però, eravamo – come in Superflumina – nei palchi: i materiali scambiati dai quattro solisti in basso in platea conservavano tuttavia un’informazione spaziale, accanto alle altre microvariazioni parametriche (rese con precisione dai solisti); l’effetto di sfondamento dello spazio e della combinazione figurale è stato ottenuto comunque, con i gruppi di sassofoni in alcuni palchi e dietro la tenda nel foyer; ma si è perso quello di accerchiamento mobile quando tutti i cento sassofoni (maestri e studenti di Conservatori e Scuole della Sicilia occidentale) sono entrati camminando in doppio cerchio nella platea: la circulatio è stata apprezzabile quasi solo ‘scenicamente’, più che acusticamente. L’esperienza d’ascolto è stata comunque significativa dell’estetica e della poetica di Sciarrino: è nota la sua ricerca sul funzionamento psichico della memoria musicale, sulla capacità di questa di astrarre la categoria delle figure in ascolto e di conservarsi o rigettarsi nella loro materialità sonora; ovvero – nel suo personale linguaggio – di organizzare con nitide strutture spaziali l’intera forma, e di indagare le zone liminali del suono, programmando un equilibrio problematico e sempre ridefinito tra il principio del discreto e il principio dell’informale. Il brano è una sfida estrema nel quadro di tale principio, dato che – nell’arco di circa 45’ minuti – il gioco figurale è presto svelato, e a quel punto tocca alle micro-variazioni sostenere l’ascolto; è quindi inevitabile, in questo quadro, l’incidenza del fattore psicopercettivo personale: una volta registrato l’oggettivo fascino di ampi momenti, non resta che accettare la coerenza dell’operazione, calarvisi, e interrogarsi sulla propria risposta a quelle condizioni di ascolto. L’esecuzione di La bocca, i piedi, il suono è stata preceduta da quella di alcune trascrizioni per quartetto di sax dello stesso Sciarrino, da Gesualdo, Bach, Scarlatti e Porter. 

 

 

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