Beethoven e Stravinskij per uno splendido Chung a Santa Cecilia

Tutto esaurito per un concerto perfetto

CChung e l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Foto MUSA)
Chung e l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Foto MUSA)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Chung e l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia
11 Gennaio 2024 - 13 Gennaio 2024

Myung-Whun Chung ha debuttato sul podio dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel 1986, poi è tornato quasi ogni anno, finché nel 1997 è stato nominato Direttore principale. Quel rapporto si è interrotto nel 2005, ma da qualche tempo il direttore coreano ha ripreso a dirigere a Roma ogni anno e ha ristabilito un ottimo feeling sia con l’orchestra che col pubblico, tanto che per lui la grande sala del Parco della Musica è tornata a riempirsi fino all’ultimo posto, evento più unico che raro dai tempi dei lockdown. Chi si è accaparrato i biglietti non se ne sarà pentito, perché il concerto, di cui abbiamo ascoltato la prima delle tre repliche, è stato semplicemente perfetto.

In programma la Sinfonia n. 6 “Pastorale”  di Beethoven e Le sacre du Printemps  (Il rito della primavera) di Stravinskij, due brani prediletti da Chung, che li ha già diretti varie volte con quest’orchestra, a Roma e in tournée.

Nella “Pastorale” tutto è molto semplice. Il gesto di Chung è minimalista: visto da dietro sembra quasi immobile, perché muove soltanto gli avambracci (e soltanto in rarissimi momenti il braccio intero), le gambe e il tronco sono ben fissi, talora la testa si volge appena verso una sezione o l’altra dell’orchestra. Scandisce geometricamente il tempo, dà pochissime indicazioni espressive, quasi mai dà gli attacchi, ma l’orchestra non ne ha bisogno e non ne sbaglia uno. Il risultato è che la musica di Beethoven fluisce meravigliosamente, con tempi ideali e flessibili, qualche ben calcolato rallentando nei punti giusti, dinamiche molto varie ma sempre entro una gamma ristretta (come doveva essere ai tempi di Beethoven), senza giungere né al pianissimo appena udibile né il fortissimo, tranne che allo scoppiare dei tuoni (che comunque non sono esplosioni che fanno sobbalzare) e al culmine della danza dei contadini.

Nel primo movimento ci si sente veramente immersi nell’aria trasparente e fresca della primavera (è il “risveglio di impressioni gioiose all’arrivo in campagna”) e nel secondo si prova la pace dello stare sdraiati sulla riva del ruscello che scorre, senza che il mormorio dell’acqua e il canto degli uccelli abbiano troppo risalto, perché Beethoven stesso ha detto che “qualsiasi pittura nella musica strumentale, se viene troppo caricata, diventa un errore”. Questa deve essere “espressione del sentimento più che pittura” ed è esattamente quel che fa Chung, fino alle ultime emozionanti e commoventi battute, che esprimono i “sentimenti di riconoscenza dopo la tempesta”.

Anche quando dirige Stravinskij, il gesto di Chung è essenziale come in Beethoven, soltanto un pò più ampio, fino al punto di coinvolgere in qualche passaggio tutto il braccio e anche la spalla, ma sempre con un autocontrollo totale. Certamente durante le prove Chung sarà stato più minuzioso, ma ora, come prima in Beethoven, si limita all’essenziale, sembra quasi lasciare che l’orchestra vada da sola. E l’orchestra suona benissimo, sia quando è una formidabile massa compatta di quasi cento strumenti, sia quando vengono in primo piano piccoli gruppi o anche singoli strumenti, soprattutto i fiati: forse in qualche caso Chung avrebbe potuto concertare meglio i loro brevi interventi e non lasciare a sé stessi gli strumentisti, che erano assolutamente sincroni ma non sempre bilanciavano esattamente i rispettivi volumi, perché probabilmente non potevano sentirsi tra loro. È soltanto un minimo appunto, per confermare a noi stessi che la perfezione non è di questo mondo.

La violenza (pseudo)primitiva di questo capolavoro di Stravinskij stava non tanto nello scatenamento di singoli ritmi e colori violenti e barbarici ma tutto – temi, ritmi, colori – era fuso in un unico blocco inscalfibile di suono, enorme, spaventevole, irrazionale, come un idolo preistorico scolpito nella roccia. Anche qui il fortissimo, cui molti direttori ricorrono come facile mezzo per impressionare, era usato con moderazione da Chung: eppure era un Sacre mozzafiato, come non ne ricordiamo altri. Alla fine - lo stesso era successo dopo la Pastorale - il pubblico è esploso. Chung e l’orchestra hanno ringraziato con un bis (come è normale nelle tournée ma più unico che raro nei concerti in abbonamento) e hanno scelto l’ultima parte del Sacre, la danza sacrificale dell’Eletta: ebbene qui si è raggiunto l’incredibile, Chung e l’orchestra hanno tolto ogni freno e il perfetto controllo si è unito allo scatenamento orgiastico, qualcosa di esaltante, che ha mandato in visibilio tutto il pubblico. Non ringraziamo quelli che in una brevissima pausa sono scattati in un applauso, togliendoci il piacere di sentire il bis fino alla fine.

 

 

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