Lorde, l’adolescenza come melodramma

Il secondo, atteso album della giovanissima superstar neozelandese
 

Lorde
Disco
pop
Lorde
Melodrama
Republic
2017

Non tutto il pop adolescenziale diventa necessariamente merce musicale da ipermercato: lo è Ariana Grande, un po’ meno Miley Cyrus, quasi per niente Lorde. Proveniente dagli antipodi, la neozelandese Ella Yelich-O’Connor ha curriculum da enfant prodige: contrattualizzata da quando aveva dodici anni (nemmeno fosse una futura stella del calcio), a sedici era già personaggio affermato su scala planetaria. Merito dell’album Pure Heroine (best seller da oltre cinque milioni di copie) e del singolo che gli fece da battistrada, “Royals”, al primo posto in classifica in tre continenti e insignito di un doppio Grammy Award. Ragion per cui “Time” la incluse nella lista dei sedici teenager più influenti sulla faccia della Terra e “Forbes” in quella dei trenta under 30 emergenti nella sfera del business.

Se invece occorre un parere culturalmente altolocato, David Bowie si espresse così: «È come ascoltare il domani». Ovviamente era attesa perciò al varco del secondo lavoro. Frutto di una lunga gestazione e di un radicale mutamento di contesto (registrazioni a New York anziché in patria, insieme al nuovo partner artistico Jack Antonoff, che ha rimpiazzato il connazionale Joel Little), Melodrama segna il trapasso ambientale ed emotivo dalla cameretta alla mondanità. Non a caso, per ammissione dell’autrice, il disco racconta l’andamento di una serata trascorsa a un party, dall’eccitazione della vigilia alla malinconia degli effetti postumi: trama da cui trapela in controluce l’analogia con il decorso delle storie d’amore.

La musica riflette quello schema: a tratti ombrosa – il secondo atto di “Liability”, ad esempio, oppure “Sober II”: “Le luci sono accese e tutti sono andati a casa, ma io chi sono?” – ed elettrizzata altrove, come in “Supercut” e soprattutto nell’iniziale “Green Light”, trainata da una sequenza di accordi al pianoforte di tipica matrice house.

Nel video di quest’ultimo brano la si vede danzare in maniera un po’ scomposta e vagamente goffa. Caratteristica che, associata agli abiti demodé con cui capita di vederla in scena, descrive una sorta d’inadeguatezza al ruolo assegnatole. In qualche modo, insomma, Lorde rimane l’outsider che – per motivi geografici e temperamentali – era. E riafferma, d’altra parte, una cifra stilistica affatto personale. Anzitutto nei testi, punteggiati da osservazioni acuminate (“Penso troppo a come usi la punteggiatura”), immagini audaci (“Ecco, l’estate ci ha fatti scivolare sotto la sua lingua”) e guizzi d’ironia (“Siamo i migliori, ci appenderanno al Louvre, sul retro, ma che importa, è pur sempre il Louvre”), volendo citare la canzone intitolata al museo parigino.

Non le fa difetto l’ambizione, del resto: «Voglio arrivare a essere davvero brava, un giorno. Adesso lo sono abbastanza, diciamo che sono partita bene. Ma voglio essere Paul Simon. Voglio essere Leonard Cohen. Voglio essere una cazzo di Joni Mitchell!», ha dichiarato di recente in un’intervista a “The Guardian”: Non ha citato Kate Bush, cui viceversa sarebbe facile accostarla in termini di eccentricità espressiva, ascoltando l’incantevole “Writer in the Dark”: anch’ella a suo tempo esordiente in giovanissima età.

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