Jack White va in bianco

Il nuovo disco di Jack White, Boarding House Reach, è cervellotico e deludente

Boarding House Reach, il nuovo disco di Jack White
Disco
pop
Jack White
Boarding House Reach
Third Man
2018

Sono trascorsi vent’anni dall’esordio discografico dei White Stripes di Jack White (il singolo “Let’s Shake Hands”) e una decina dal periodo in cui la storia del duo imboccò il viale del tramonto, benché il refrain della sua canzone più famosa – “Seven Nation Army “ – si riverberi ancora nell’attualità: dopo aver accompagnato la vittoria italiana ai Mondiali di Calcio del 2006, è diventato colonna sonora dell’ascesa del leader laburista britannico, da quando all’inizio della scorsa estate la folla al festival di Glastonbury lo accolse al canto di “Oh Jeremy Corbyn”.

Nel frattempo, Jack White ha incasellato sé stesso nel ruolo di rockstar riluttante: dirige l’etichetta del Terzo Uomo (Third Man), consacrata al vinile, e accoglie dentro l’omonimo studio di Nashville amici e artisti di passaggio, producendo occasionalmente musica in gruppo – sulla scia dei Raconteurs sono arrivati i Dead Weather – o da solista, senza mai nemmeno avvicinare – chissà se per attitudine da bastian contrario o semplice difetto d’ispirazione – i trionfi del passato, tuttavia.

Prendiamo questo album nuovo, terzo a suo nome: sembra fatto apposta per indispettire i fan del ruvido rock minimalista che lo aveva reso popolare. Lo scarto è netto fin dalle prime note: pur muovendosi su cadenze blues, con guarnizioni di coro gospel femminile e svisate all’organo Hammond, “Connected by Love” è sostenuto da un greve bordone di sintetizzatore.

Presagio di ciò che accadrà in seguito, fra un’improbabile bossa nova futurista con tanto di Vocoder (“Get in the Mind Shaft”) e qualche goffo ammiccamento verso l’hip hop (in “Corporation” e “Hypermisophoniac”). Un esperimento “incredibilmente moderno”, a detta dell’autore, però fallimentare all’ascolto.

Intendiamoci, da un punto di vista squisitamente tecnico, a cominciare dall’approccio del protagonista alla chitarra elettrica, nulla si può eccepire: nelle registrazioni sono stati coinvolti strumentisti e vocalist – complessivamente una ventina – di prim’ordine, tra i quali – a proposito di hip hop – alcuni collaboratori abituali di Jay-Z e Kanye West.

Il problema è la qualità della scrittura: nessuna canzone lascia il segno. A meno che non ci si lasci intenerire dalla nostalgia dei tempi andati (l’acustico valzer country di “What’s Done Is Done”) o incuriosire dalla bizzarria di chiusura, ossia una garbata rilettura di “Humoresque”, brano ricalcato appunto sulla celeberrima “Humoresque n. 7” di Antonin Dvořák nella versione Tin Pan Alley con testo di Howard Johnson (già responsabile del classico “I Scream, You Scream, We All Scream for Ice Cream”, proprio quello intonato da Benigni, Waits e Lurie in Down by Law di Jarmusch) trascritta in carcere da Al Capone (!) su un foglio battuto all’asta nel giugno 2017 per 18.750 dollari. L’acquirente? Lo stesso Jack White, ovvio.

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