Dobbiaco per Mahler 2

Tra Dialoghi e Concerti

Recensione
classica
Un riparo sicuro. Questo è stato Dobbiaco per Gustav Mahler. Un luogo dove rifugiarsi per sostenere il triplice colpo mortale che il destino gli preparò nell’anno 1907: la morte della figlia primogenita, la scoperta di una malformazione cardiaca e la rottura con l’Opera di Vienna.

Le Dolomiti erano diventate una meta prediletta delle sue vacanze già una decina di anni prima, come ha spiegato la musicologa Milijana Pavlović (Università di Innsbruck) attualmente impegnata a capo del progetto “Gustav Mahlers Tirol” il cui focus è proprio la presenza del compositore boemo nel Tirolo degli Asburgo (lo studio verrà pubblicato nel 2018). Nel suo intervento di mercoledì 19 luglio, nella seconda giornata dei “Dialoghi mahleriani”, Pavlović ha ripercorso le tappe di questa frequentazione di Mahler con Dobbiaco, dalla prima breve escursione da Varna, dove si trovava con le sorelle (1897) ai viaggi brevi nelle vicinanze, a Landro e Misurina (1904). «Le Dolomiti erano il suo rifugio nei momenti critici del lavoro o nelle crisi creative – ha spiegato Pavlović. Non era uno scalatore vero e proprio, ma amava camminare e godeva del paesaggio. Solo nelle scarpinate in solitaria, a stretto contatto con la natura, ritrovava le idee e il giusto slancio per rimettersi a comporre. Dopo quel terribile 1907, Gustav cercò in questo paesaggio alpino anche una fuga dal dolore e il legame diventò sempre più profondo».

Nell’estate del 1908 comincia, dunque, la sua residenza estiva a Dobbiaco, precisamente al Maso Trenker di Carbonin Vecchia, nelle cui vicinanze si farà costruire una casetta per comporre - la terza nella sua vita, dopo quelle di Steinbach am Attersee (Alta Austria) e di Maiernigg am Wörthersee (Carinzia). Ma a Dobbiaco, dopo il 1907, per Mahler nulla era più come prima. Il suo aspetto era quello «di un uomo spento» (Bruno Walter) e «in effetti non poteva più muoversi – ha spiegato Milijana Pavlović - fare le sue camminate, avere un contatto diretto con le fonti della sua musica. Doveva trovare altre vie per le vette della creatività. La sua risposta da artista fu quella di fare una cosa che non aveva mai fatto prima, scrivere genere nuovo, ossia una sintesi tra il lied e la sinfonia, con l’utilizzo di testi letterari non europei: nasce Das Lied von der Erde».

Il perché Mahler avesse scelto delle poesie cinesi prova a spiegarlo Peter Stachel, storico dell’Istituto austriaco della cultura e della storia del teatro, che martedì 18 luglio, nella prima giornata dei “Dialoghi mahleriani”, racconta dell’esotismo a Vienna sul volgere del XX secolo. Un ruolo fondamentale lo ebbe il Prater, ossia il parco dei divertimenti alle porte della capitale asburgica, che dal 1872 propose diverse esposizioni di popoli esotici come Cingalesi e africani. Grandissimo interesse nei viennesi avevano suscitato il villaggio Ashanti (1896) con le sue sensuali donne di colore, come la tenda dei nativi americani, ma anche la mascherata di carnevale “Gran Pechino” (1892) e la Festa giapponese per la fioritura dei ciliegi (1901).

Non c’è dubbio, dunque, che l’esotico avesse suscitato la curiosità dei sudditi degli Asburgo. Ma nella scelta di Mahler per le antiche liriche cinesi c’è qualcosa di più profondo e salta subito agli occhi nella conferenza del sinologo Giovanni Vitiello (Università “L’Orientale” di Napoli). I testi che il compositore aveva letto nella raccolta “Il flauto cinese” di Hans Bethge, ricevuta in regalo l’anno precedente, sono accomunati da una poetica dell’evocativo, della natura, e fanno parte del filone dell’eremitaggio. Le immagini che dipingono i versi sono quelle di un uomo abbandonato e solo, di un eremita incastonato in una grotta, tra sorgenti di acque limpide e muschi. La natura rimane il mezzo privilegiato per ritrovare la via maestra, l’armonia perduta, e la montagna diviene la sede ideale degli immortali. «Questa poesia non è solo descrizione di paesaggi – ha spiegato Vitiello – ma una speculazione filosofica estrema sul destino umano. Nei testi non può mancare l’acqua, come fiume o ruscello, che fluisce costantemente ma che è inesauribile. In questo senso la natura può essere consolatoria, ossia come invito ad accettare il cambiamento». Isolamento, eremitaggio, montagne, torrenti e la forza di accettare il cambiamento: più che l’esotismo del modernismo viennese sembra il senso della vita di Mahler a Dobbiaco nel 1908. Che le abbia ricevute per caso o che avesse mostrato già un precedente interesse – questo, purtroppo, non ci è dato di saperlo – le antiche liriche cinesi rispecchiavano esattamente lo stato d’animo del compositore in quella estate ai piedi delle Dolomiti. E lo dimostrano le modifiche, il cambiamento dei titoli, le aggiunte, la deriva autobiografica (dalla “solitaria” al “solitario”) che Mahler attuò sui testi.

Sembra di essere vicini alla verità, alla soluzione dell’enigma del “Canto della Terra”, in attesa di ascoltarlo il 22 luglio nella Sala Gustav Mahler del Centro Culturale. Nel frattempo il musicologo Christian Utz (Università della musica e delle arti di Graz), uno degli studiosi che hanno animato le affollate conferenze pomeridiane, ha presentato un altro aspetto sotto il quale indagare quest’opera, ossia le sue interpretazioni dagli anni ’30 ai giorni nostri. Come esecutore delle sue stesse composizioni, Mahler era aperto a revisioni e riconsiderazioni, e nella scelta dei tempi prediligeva la lentezza: nel dubbio, il tempo lento portava ad elaborare i passaggi in modo più preciso. Proprio la lentezza, la dilatazione del tempo, è stata utilizzata per tutto il Novecento come elemento espressivo per sottolineare le lacerazioni nella struttura di Das Lied von der Erde. Utz ha presentato i risultati di una ricerca condotta prendendo a campione le 53 incisioni ritenute più significative, da quella di Bruno Walter del 1936 a quella di Jonathan Nott del 2017. Il dato interessante, in cui si può leggere un’evoluzione interpretativa del Canto della Terra, è l’oscillazione, più o meno significativa, del tempo nelle varie sezioni dell’opera. Se la versione di Bernstein (1966) indugia sulle lacerazioni, sottolineando le cesure, e quella di Karajan (1970/74) risulta invece più equilibrata evitando gli estremi, la tendenza dopo gli anni ’80 è stata quella di una nuova oggettività, verso un’interpretazione più lineare.

Nelle prime due giornate dei “Dialoghi mahleriani” abbiamo potuto assistere a due concerti nel calendario delle Settimane musicali, preparato anche quest’anno con gusto e lungimiranza da Josef Lanz. Chiude il primo pomeriggio di Dialoghi Mahleriani il concerto del Quartetto Armida (18.7), giovani musicisti berlinesi (vincitori dell’ARD di Monaco nel 2012) che rappresentano uno dei migliori quartetti sulla scena internazionale. La verve di ciascun arco si palesa al primo attacco e non può tacere neppure nel gioco di ruoli che pretende la formazione del quartetto ma anzi pulsa armonicamente come le parti di un unico corpo. Del programma presentato (Schönberg, Widmann, Mendelssohn), eseguito con passione e dominio tecnico dalla prima all’ultima nota, ci ha letteralmente conquistato il brano del contemporaneo Jörg Widmann. Una partitura folle (“La Caccia”, 2003) - tra urla, gesti, archetti branditi come fruste - che brilla nella sua intelligente costruzione grazie all’interpretazione dell’Armida Quartet. Il tutto parte dalla citazione colta di una frase pianistica di Schumann, presentata con velocità parossistica, che va disgregandosi in una trasfigurazione di umori, da gioia a terrore, da melodia a rumore, da cacciatore a preda: vitalità pura. Non conosco altre opere di Widmann, ma se fossi in lui obbligherei l’Armida all’esclusiva di tutte le sue composizioni per quartetto! Dal 18 luglio il suo “Jagdquartett” è diventato il mio brano preferito (poi lo spiegherò alla mia trinità: Mozart, Schumann e Poulenc).

Il giorno seguente (19.7) un altro appuntamento di alto livello con la coppia Nicolas Altstaedt al violoncello e Aleksandar Madžar al pianoforte. La chiave di lettura della loro esibizione parte dal centro del programma che hanno presentato e precisamente da un titolo, “Dialogo”, ossia il primo movimento della Sonata di Britten, op.65. Perché l’equilibrio, l’ascolto, l’intesa tra i due strumentisti è stata notevole, a maggior ragione in presenza di una personalità estrosa e preponderante come quella di Altstaedt, la cui unicità non ha per nulla condizionato o inibito il valente Madžar. La scrittura essenziale, ricorsiva e cupa dei primi movimenti di questa sonata è stata affrontata con un affiatamento sicuro. La loro fusione è risultata perfetta nella Sonata op. 99 di Brahms, dove il suono del violoncello raggiungeva il commovente ed il pianista dimostrava di saper padroneggiare tutte le temperature emotive che il compositore chiede allo strumento. Proprio la stretta coesione sonora raggiunta in queste pagine rendeva maggiormente apprezzabile la differenziazione timbrica ricercata, invece, nella Sonata di Debussy. Qui Madžar ha sfruttato la caratteristica percussiva del pianoforte per ottenere due tipi di effetti ricercati dall’autore: quello per mettere in vibrazione lunga le corde, come un gong, e quello che privilegia la motricità ritmica della scrittura. All’interno di questo ambiente sonoro esotico, Altstaedt ha inventato, in contrasto, mille timbri diversi, regalando alla partitura una ricchezza preziosa.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Nuova opera sul dramma dell’emigrazione

classica

Napoli: per il Maggio della Musica

classica

Al Theater Basel L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e il Requiem di Mozart in versione scenica