Ribolla gialla e riti jazz

Successo per Jazz&Wine of Peace a Cormòns

Recensione
jazz

Meritoriamente baciata da condizioni meteo spettacolari che hanno fatto risaltare appieno i meravigliosi colori autunnali del Collio, l’edizione 2016 del Festival Jazz& Wine of Peace di Cormòns (il prossimo anno, speciale, saranno venti!) ha confermato, se ce ne fosse ancora bisogno, l’assoluta eccellenza di questa idea di connubio tra la musica e il turismo.

Se ce ne fosse ancora bisogno.

Ce n’è.

Perché – basta scorrere i programmi di tanti festival in Italia – in molti casi, anche “piazzando” qualche concerto in luoghi belli (che non è poi così difficile), siamo ancora ben lontani dall’attivare quello straordinario rapporto tra jazz, territorio, comunità, produzione enogastronomica e flussi turistici di qualità che in questo splendido angolo d’Italia sono riusciti a consolidare e a rendere regola virtuosa.

(Una priorità, quella del rapporto di qualità tra jazz e turismo, ribadita tra l’altro non più di due mesi fa dallo stesso Ministero nel convegno dell’Aquila e “magicamente” sparita – il perché lo cercheremo di capire presto – dall’appena uscito nuovo bando Franceschini… misteri molto italiani…)

A Cormòns, grazie al notevole lavoro di tutto il Circolo Controtempo guidato da Paola Martini (e con la sempre originale direzione artistica di Mauro Bardusco per il Jazz&Wine), l’esperienza è di quelle che andrebbero studiate.

Quello delle aziende vinicole e delle ville della zona è infatti un coinvolgimento che, al di là degli slogan, si percepisce reale e strutturato, frutto di una reale condivisione di valori e progettualità più che di un mero “calcolo” additivo e il vivere il concerto all’interno di spazi – bellissimi – solitamente destinati ad altre attività, accompagnandolo con la degustazione di vini e cibi del territorio, sposta decisamente la prospettiva esperienziale verso termini di partecipata unicità.

Non è un caso che i concerti siano stati tutti più che esauriti e che abbiano visto la partecipazione di una larga fetta (e quando dico larga dico a volte superiore al 50%) di pubblico proveniente dall’estero, in primis le vicine Austria e Slovenia, ma non solo. Donne e uomini che li rivedi di concerto in concerto, di luogo in luogo, attentissimi alla musica e felici con il loro calice in mano, accolti da un senso di ospitalità di cui il jazz spesso è carente – stante il percepito elitismo che ancora viene associato a alcune delle sue espressioni più creative.

Venendo ai concerti cui ho potuto assistere nel fine settimana, il programma conferma la possibilità di coabitazione tra grandi nomi/linguaggi più fruibili nello spazio del teatro e il meglio della scena più avventurosa, giustamente supportato e protetto in altre location (alcuni musicisti dovrebbero fotografare le centinaia di persone che affollano gli appuntamenti nelle cantine per mostrare poi le foto ai tanti, pigri, direttori artistici che scuotendo la testa rispondono spesso loro “mi piacerebbe fare il tuo concerto, ma non fa pubblico…”).

Ecco quindi che accanto a nomi come Jan Garbarek e Dave Holland, il programma ha presentato Evan Parker e Zlatko Kaucic, Ken Vandermark o Emilie Parisien, ma anche i Tinissima e il duo Ditmas/Massaria.

Il concerto del duo tra Pasquale Mirra e Gabriele Mitelli (li abbiamo intervistati qui), nella cantina Borgo San Daniele, rimane un’esperienza di piccola, grande magia. Riprendendo i temi del recente disco Water Stress, il vibrafonista e il trombettista, accompagnati dal consueto armamentario di percussioni e altri strumentini, hanno rinsaldato quel patto di complicità tra di loro e con il pubblico, evocando sotto un sole caldo e profumato gli spiriti di Don Cherry e di Charles Mingus, prendendo frammenti e briciole di ritmi per giocare con la fantasia e i suoni. Applausi a non finire, nonostante il vino e il prosciutto attendano sui tavoli.

La sera, in un Teatro Comunale stracolmo, spazio al quartetto del chitarrista Bill Frisell, artista già altre volte ospite del festival. Il progetto è quello – ne avevamo parlato proprio con lui qui) – dedicato alle musiche da film, un repertorio in un certo senso “leggero” ma pienamente in linea con lo sguardo friselliano sulla storia pop “americana”.

Con lui il contrabbasso di Thomas Morgan e la batteria di Rudy Royston, ma anche la voce di Petra Haden (figlia di quel Charlie cui la sera prima Gonzalo Rubalcaba ha dedicato un intenso concerto), alle prese con Morricone, Rota, ma anche 007, “Moon River” o “When You Wish Upon A Star”.

Una sorta di karaoke di lusso, nobilitato dalla sensibilità di Frisell e dei due ritmi (davvero eccellenti nello smontare e rimontare i dettagli delle canzoni, quasi che il chitarrista lasci a loro il compito di farsi carico di quella complessità che i fans della prima ora gli conoscevano e che ora sembra venuta meno, con più di qualche storcimento di naso) e decisamente svilito da una Haden che già di suono non è nulla di eccezionale e che qui sconta anche – non è colpa sua, ovviamente – un pesante raffreddore.

Parlare di karaoke non è forse eccessivo, dal momento che la Haden ogni tanto cerca di coinvolgere il pubblico e comunque il suo apporto è a volte di vocalizzazione quasi svogliata di temi che il pubblico, dopo averli riconosciuti, un po’ s’annoia a continuare a ascoltare. Peccato, perché se la progettualità è di certo smaccatamente commerciale e fondamentalmente insincera, non si inserisce comunque in modo incongruo nel percorso di Frisell e forse senza la voce avrebbe convinto di più.

La serata è comunque piacevole si chiude come di consueto nella splendida enoteca di Cormòns, tra calici di vino e scambi di opinione tra il pubblico e i critici e giornalisti presenti (tra i tanti anche Pino Saulo, che ha condotto la diretta su Radio3 del concerto, e il norvegese Jan Granlie, a conferma dello spessore internazionale del festival).

La mattina della domenica si incomincia nella Tenuta Villanova di Farra d’Isonzo, con un seguitissimo (altro tutto esaurito con gente in piedi) set del trio Amiira del clarinettista basso Klaus Gesing, insieme a Björn Meyer al basso e a Samuel Rohrer alla batteria. Una musica fortemente venata di elettronica, che dentro un flusso unico fa emergere una chiara cifra melodica, perfettamente assecondata dagli ottimi strumentisti.

Il pubblico sembra apprezzare moltissimo. A me personalmente questo tipo di proposta annoia irrimediabilmente dopo i primi venti minuti, soprattutto per il fatto che le tante “trovate” timbriche sembrano un po’ fini a se stesse, più che altro conducono – con maggiore o minore dilatazione delle atmosfere – più o meno sempre al medesimo esito, di forte impatto rapsodico/emozionale, ma quasi del tutto disinteressato al potenziale straniante di dettagli e detriti. Musica un po’ for music sake – parafrasando Théophile Gautier – sebbene di ottima fattura. E premiata da un diluvio di applausi.

Memorabile chiusura di festival poi con i São Paulo Underground, nell’azienda di Renato Keber – panorama mozzafiato sul tramonto autunnale lungo il confine con la Slovenia.

Una foto pubblicata da Enrico Bettinello (@enricobettinello) in data: 30 Ott 2016 alle ore 11:11 PDT

Della loro musica vi ho parlato da poco (qui) e non c’è molto da aggiungere, se non annotare ancora una volta un pubblico numerosissimo e entusiasta che si è lasciato travolgere dall’energia elettrica di Mazurek e soci brasiliani, sciamanici ma anche molto intensi nel raccogliersi spiritualmente attorno al commosso cornettista, cui è mancato il padre da pochissimi giorni.

Catartico e rituale, avanguardistico ma capace di coinvolgere anche i non fedelissimi. Un finale davvero strepitoso, accompagnato da polenta e Ribolla Gialla, a coronare un’edizione di Jazz & Wine Of Peace (e l’elemento della pace e della solidarietà, specie verso i paesi colpiti dal terremoto, è stato sempre ricordato dalla presidente Paola Martini) che – al di là dell’apprezzamento o meno del singolo concerto – è stata costruita e vissuta in modo esemplare.

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