Il mito di Proserpina

Rihm chiude il Fast Forward Festival di Roma

Recensione
classica
Il Fast Forward Festival si è chiuso con uno spettacolo che, tra i vari esempi di teatro musicale contemporaneo proposti nel corso di dieci giorni, è quello che più si avvicina ad un'opera tradizionale... relativamente tradizionale. È "Proserpina" (2009) di Wolfgang Rihm, su un testo di Goethe del 1777, che lo scrisse nel dolore e nel lutto per la morte della giovane sorella, da cui fu spinto ad una personale rilettura del mito antico: a Proserpina, rapita dal re dell'Ade, non è concesso di tornare ogni sei mesi sulla terra, ma ella deve rimanere eternamente prigioniera nel mondo dei morti. Dunque non è più un mito sull'eterno ciclo di alternanza di inverno e primavera, di vita e morte, ma un canto luttuoso sulla morte, sul passaggio inesorabile e senza ritorno dalle emozioni, dagli affetti e dai ricordi del mondo dei vivi al buio mondo dei morti. Nelle mani di Rihm diviene un monodramma della durata di poco più di un'ora, che non può e non vuole dimenticare alcuni precedenti, in particolare "Erwartung" di Schoenberg, un testo imprescindibile dell'espressionismo musicale. È giusto a questo punto ricordare che il giovane Rihm venne definito un po' sprezzantemente neoromantico dai guru delle avanguardie degli anni intorno al 1980, ma che sarebbe stato più giusto definirlo neoespressionista. Appunto neoespressionista è la parte vocale dell'unica interprete sulla scena, particolarmente nelle pagine iniziali dell'opera, mentre poi vi si infiltrano dolcezze e malinconie melodiche vagamente straussiane e perfino una chiara citazione della Regina della Notte mozartiana. Invece l'orchestra è molto ridotta rispetto a quella di "Erwartung" e si avvale di una scrittura molto più leggera e meno aggressiva, con soluzioni timbriche raffinate e trasparenti e, anche qui, con alcune citazioni o piuttosto allusioni (l'arpa all'inizio è un riferimento ad un altro percorso nel regno dei morti, quello dell'Ofeo di Gluck). Ci sono inoltre momenti - come il sogno di un amplesso, chiaramente mimato dalla voce con sospiri e gemiti, ma senza volgarità, anzi con delicatezza - che Schoenberg e qualsiasi altro compositore del suo tempo non avrebbero mai osato pensare.

Un problema di quest'opera potrebbe essere la distanza di epoca e stile tra il testo e la musica, ma viene totalmente superato, anche grazie alla bella e sensibile messa in scena (regia dell'argentina Valentina Carrasco, scenografia di Carles Berga, costumi di Clay Apenouvon e luci di Patrizio Maggi), che immerge l'opera in un'atmosfera onirica, eludendo molti riferimenti classicistici di Goethe a personaggi e episodi della mitologia. Il sipario si apre su un palcoscenico in cui emergono varie forme coperte da un leggero tulle, forse bianco come quello di un abito da sposa, forse rosa e sensuale come la pelle di una fanciulla. Da quei veli emergono Proserpina, poi le sue compagne e gli oggetti quotidiani della sua vita, o piuttosto il loro ricordo, velato dal tempo e dalla lontananza. La protagonista man mano si rende conto che non è più tra i vivi, ma nel mondo dei morti, che si popola di presenze inquietanti e quasi mostruose - le Parche - e viene ricoperto da una plastica nera e soffocante, che avvolge Proserpina e alla fine la immobilizza. Il risultato di questo dialogo tra parola e musica e tra musica e scena - che si discostano l'una dall'altra, ma anche si completano a vicenda - è insinuante, inquietante, affascinante. Lo dimostrano gli applausi rivolti a tutti: il compositore, la regista e la sua équipe, la bravissima protagonista Majca Erdmann, il direttore Walter Nobéra, il coro femminile e gli stumentisti dell'Opera di Roma.

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