Sinfonia Romana

Stenz all'Opera, Pappano a Santa Cecilia

Recensione
classica
A poche ore di distanza il Teatro dell'Opera e l'Accademia di Santa Cecilia hanno presentato due programmi sinfonici impaginati in modo simile: nella prima parte un compositore del primo Novecento e uno contemporaneo e nella seconda un importante - anche per dimensioni - lavoro sinfonico del secondo Ottocento. Una formula non originalissima ma sempre valida, sia per la sua varietà che per il suo valore formativo, perché fa toccare con mano al pubblico che i grandi compositori del ventesimo secolo sono ormai dei classici e che quelli del ventunesimo non sono degli alieni e possono stare benissimo accanto ai loro predecessori dei secoli precedenti.

All'Opera il brano del Novecento storico era Le fontane di Roma di Respighi, che noi italiani spesso sottovalutiamo mentre all'estero continua a piacere molto... ma forse non proprio a tutti: in effetti non si è capito se Markus Stenz fosse convinto fino in fondo del valore di questo celebre brano, perché ne ha dato una lettura corretta e analitica, ma priva dell'entusiasmo e dell'inebriamento necessari per far brillare al massimo la sua prodigiosa orchestrazione. Ben diversi l'interesse e anche l'energia che il direttore tedesco ha messo nella realizzazione di In-Schrift 2, composto da Wolfgang Rihm nel 2013 per il cinquantesimo anniversario della sala della Philharmonie di Berlino. É stato pensato proprio per quel particolare spazio acustico, in cui il pubblico è disposto intorno all'orchestra, ma anche in una sala tradizionale non perde nulla della sua efficacia. In-Schrift 2 ha qualcosa in comune - mutatis mutandis - con Le fontane di Roma, in quanto consiste di una serie di pannelli da eseguire senza interruzione di continuità ma disomogenei tra loro, almeno in apparenza, perché c'è un elemento di fondo che li tiene insieme, ed è la ricerca timbrica. Ma c'è - tra le altre - una differenza fondamentale, in quanto il timbro di Rihm ha poco o nulla di edonistico, anzi non teme di essere aspro, violento, perfino "brutto", rispecchiando così il nostro tempo e la sua estetica, in cui il bello non è certo il criterio fondamentale per giudicare l'opera d'arte. Non per questo è meno raffinata la scrittura orchestrale di Rihm, che va da un accostamento insolito di strumenti come le campane tubolari e il flauto a un massiccio intervento degli ottoni simile a un Fafner wagneriano all'ennesima potenza, da una violenta irruzione ritmico-timbrica di cinque percussioni a una micromelodia - quasi un brusio - degli archi gravi, su cui si posano leggeri tocchi dei legni. E così via. Con lo scopo di mettere anche in luce il virtuosismo delle varie sezioni dei Berliner. Tutto è calcolato magistralmente e l'effetto è indubbiamente forte e trascinante, tanto da ottenere più applausi del pezzo di Respighi.

Stenz ha concluso dirigendo magnificamente la Prima Sinfonia di Brahms, il cui do minore ha ritrovato colori e atmosfere dall'antica patina romantica, cupamente drammatiche e tempestosamente convulse. L'orchestra dell'Opera- che da anni non frequenta il repertorio sinfonico e quindi nella sua maggior parte non aveva mai suonato Brahms - ha risposto in modo sorprendente, tirando fuori solida compattezza, arcate ampie e vigorose e profondo velluto del suono, degni di un'orchestra di grande tradizione sinfonica, uniti a una sicurezza che permetteva a Stenz di smettere a tratti di dare tempo e attacchi per concentrarsi sulle indicazioni espressive. Grande e meritatissimo successo per l'orchestra e il direttore.

A Santa Cecilia Antonio Pappano apriva il concerto con L'aurora, probabilmente del trentasettenne Riccardo Panfili, presentato alla Scala nel 2014 e poi sottoposto a leggeri ritocchi. Il lavoro prende spunto da una riflessione quanto mai attuale, suggerita da Aurora di Nietzsche: "Un cuore di tenebra pulsa dentro il pensiero utopico: la disposizione a tramutarsi in culto cieco, in violenza". Panfili ha la capacità di sublimare questo assunto politico-filosofico in pura musica, trasformando ogni scoria extramusicale in invenzione timbrica fiammeggiante e in mobilissima energia ritmica. Il brano si svolge attraverso vari episodi - ognuno dei quali inizia in modo calmo e spettrale e culmina nella violenza e nel caos - e si conclude con una visione di serenità: è giunta forse l'aurora? Non c'è risposta. Anche in questo caso, come il giorno prima all'Opera, applausi quali si sentono raramente per un brano contemporaneo. Il classico del Novecento era la Sinfonia di Salmi di Stravinsky, di cui Pappano ha ulteriormente accentuato l'immobilità e l'astrattezza da icona bizantina. Una bellissima esecuzione: ma si sa, quando Pappano lavora con le voci - in questo caso con l'eccellente coro dell'Accademia di Santa Cecilia, preparato da Ciro Visco - il risultato è garantito.

Gran finale con la Quinta Sinfonia di Ciajkovskij. Pappano - che ha inciso le ultime tre sinfonie dell'autore russo con questa stessa orchestra nel 2007 - sa che non bisogna tirarsi indietro davanti all'esasperazione espressiva di Ciajkovskij, anzi bisogna essere viscerali, ma in modo sincero e antiretorico, come sanno fare alcuni grandi direttori russi quali Mravinsky e Gergiev e pochissimi altri. Allora ogni elemento va al suo posto, ogni sospetto di esagerazione o di volgarità si brucia al fuoco della passione e viene in risalto anche la raffinatezza dell'autore del Lago dei cigni, con i brillanti dettagli orchestrali, l'incanto malinconico belliniano di una melodia del corno, l'eleganza di un nostalgico ritmo di valzer. Smagliante la prova dell'orchestra, di cui non si sapeva se ammirare di più la totale identificazione emotiva con questa musica o il virtuosismo e la bellezza del suono. Successo clamoroso.

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