Jazz da condividere

Reportage da Novara Jazz 2015

Recensione
jazz
Vivere un festival avendo l’opportunità di muoversi e sbirciare liberamente dietro le quinte è un privilegio che non sempre si riesce a ottenere, ma che consente di "leggere" con maggiore completezza le strategie e i valori che un evento di questo genere porta al territorio e agli artisti.

Mi è capitato quest’anno a Novara, dove sono arrivato per il weekend conclusivo di un festival che si è snodato lungo l’arco di una ventina di giorni, partendo dalla residenza dell’ICP a maggio.

Grazie alla disponibilità della direzione artistica, che mi ha avuto "tra i piedi" per tre giorni, ho così avuto modo di capire meglio come "funziona" un festival così articolato e attento al coinvolgimento di differenti comunità di spettatori, con tutti gli "imprevisti" del caso.

La prima sera, quella di un giovedì in cui non si parla altro che della scomparsa di Ornette Coleman, prevede il concerto di Peter Brötzmann con lo XOL Trio. È una abitudine coraggiosa e interessante, quella del festival novarese all’accostamento di maestri consolidati dell’improvvisazione a artisti più giovani. È accaduto con Wadada Leo Smith e gli Eco d’alberi (è uscito da poco un cd che testimonia l’incontro), accade ora con il sassofonista tedesco e questo trio, in cui il contrabbassista Luca Pissavini è affiancato dagli svizzeri Guy Bettini alla tromba e Francesco Miccolis alla batteria.
Un incontro che nasce proprio su quel palco in quel momento – anche se i quattro partiranno poi per un piccolo tour in cui consolidare idee e affinità – quindi aperto a qualsiasi esito.
Il clima già rilassato del pomeriggio prelude a un concerto che funziona e che soddisfa il numeroso pubblico della sala del Conservatorio Cantelli.



I quattro attraversano come è prevedibile alcune "zone" espressive sulla carta prevedibili, dal furore collettivo alla rarefazione, ma un grande pregio dello XOL Trio è quello di evitare di inseguire un pointillisme di sapore radicale europeo e spesso a rischio noia, prediligendo condotte ritmiche più compatte, di un tribalismo urbano quasi rock talvolta, che consente a Brötzmann di far rilucere il sottovalutato lirismo del suo urlo strumentale e a Bettini di contrappuntare con grande asciuttezza i quadri sonori.
Bis dedicato a Coleman con una intensa versione di "Lonely Woman".
Un buon esito, che si spera possa trovare un seguito – se ne parlava a cena con il sassofonista – più strutturato nel prossimo futuro.

La giornata del venerdì si apre con lo sguardo alle app meteo. Per un festival che si svolge prevalentemente all’aperto, vedere sugli schermi dei cellulari tutte quelle nubi grigie e piccole saette è un bel grattacapo e dalla mattina si cerca di trovare le migliori soluzioni per evitare il peggio.
Novara è città che, oltre alle belle piazze, possiede un numero davvero molto interessante di luoghi per la musica, dalla già citata sala concerti del Conservatorio all’Auditorium al bell’auditorium del Civico Istituto Musicale Brera, dal Teatro Coccia al Piccolo Coccia, passando per l’auditorium di Palazzo Borsa.

Il cuore del festival è però il fascinoso Cortile del Broletto (da quest’anno dotato di un ottimo bar-ristorante) e per non disperdere pubblico e energie si sceglie saggiamente di spostare il palco sotto il portico, un po’ più strettini ma comunque asciutti in ogni caso.

Il primo appuntamento del programma è però fuori città, a Magenta, in una cascina nel meraviglioso parco del Ticino, a testimonianza ulteriore del grande lavoro di coinvolgimento del territorio limitrofo svolto dal festival. Purtroppo un problema tecnico al contrabbasso costringe lo spostamento del concerto del trio di Gianni Gebbia a Novara, nella piazzetta che ospita la bella iniziativa di Street Food.
Tutto risolto? No, perché alla fine il meteo ci aveva visto giusto e inizia a piovere, costringendo Gebbia a un nuovo cambio di programma. Non tutti i mali vengono per nuocere avrà però pensato il sassofonista palermitano, che dopo tanto girovagare troverà ospitalità sul palco principale, dopo l’atteso quartetto di Roberto Ottaviano.

Intanto al Broletto il critico Claudio Sessa presenta in assoluta anteprima (il libro uscirà solo tra un paio di giorni) e con la consueta verve sorniona il suo nuovo lavoro, dal titolo Improvviso singolare, continuazione ideale del precedente lavoro, sempre edito da Il Saggiatore.

Ci confrontiamo a lungo con Sessa, e con un bicchiere davanti che non guasta, sulle tante prospettive con cui si cerca di leggere le vicende di questo primo secolo di jazz, in una conversazione stimolante in cui ci ripromettiamo di pensare al più presto una tavola rotonda sull’argomento. Magari a Novara il prossimo anno?

Piove a catinelle, ma sotto i portici c’è tutto il calore che merita Ottaviano, sopranista di esperienza e talento che presenta qui il suo recente omaggio al maestro Steve Lacy, insieme a Giorgio Vendola (contrabbasso), Enzo Lanzo (batteria) e con la partecipazione di Giovanni Falzone alla tromba. Il Lacy di Ottaviano è un Lacy "restituito" al flusso della tradizione, sghembo e caldo al tempo stesso, capace con l’originalità dei temi di catturare l’attenzione del pubblico in ogni momento.
La obliquità tagliente della poetica lacyana si accende di colori mediterranei e, grazie alla scoppiettante verve di Falzone, trova nuove sfumature, se vogliamo in alcuni casi "estranee" o per meglio dire tangenti alla scarna semplicità dell’originale, ma giocate con il giusto rispetto.

Dello stesso mood caldo gode anche Gebbia, finalmente sul palco con Gabrio Bevilacqua al contrabbasso e Gioele Pagliaccia alla batteria. Questo Magnetic Trio lo vede anch’egli al soprano (strumento cui si è riaccostato da qualche tempo) e quindi c’è continuità e contrasto in questa abbinata. Sassofonista e compositore originale, Gebbia convince tutti e nel finale coinvolge anche Ottaviano e Falzone per un bis infuocato e nel quale gli applausi scrosciano più della pioggia.

Finale di serata dedicato al djing, con i londinesi We Free Kings, al secolo Fred Bolza, Duncan Brooker e Francis Gooding, numi tutelari del collezionismo vinilico jazz e della conseguente scena dj. Divisi tra il portico del Broletto e il locale "049", in queste sere stipato di giovanissimi con il drink in mano e un’attenzione un po’ labile alla musica, i tre fanno ascoltare alcune chicche dalle loro collezioni e avrebbero certo meritato un po’ più di calore.
Ma, si sa, il pubblico dei giovanissimi è tra i più difficili da coinvolgere realmente, anche andando – come hanno fatto meritoriamente a Novara – a incontrarli proprio nei luoghi della loro night life. Il punto è che sono gli stessi schemi della night life a prevedere che la musica, quale essa sia, funga da sfondo piuttosto che da protagonista, ma non manca chi inizia a ballare e chi applaude i bravissimi londinesi.

Meteo incerto anche il sabato.
Giovanni Falzone è atteso in solo nel bel giardino di Casa Natta, coadiuvato da un uso stratiforme dell’elettronica nella rilettura di alcuni pezzi di Bach e Verdi.
Tecnicamente bravissimo e trascinante, lui. A volte funziona a volte è un po’ saturo l’esito del progetto. Ci si mette ancora la pioggia e si ripara (bravissimi tutti in due minuti a togliere l’impianto dalla furia delle gocce) dentro la sala dell’ex consiglio provinciale, paradossalmente quella dotata del maggior numero di microfoni (quelli delle singole postazioni dei consiglieri), ma dove l’ultima parte del concerto si svolge in acustico, alla tromba e al flicorno contralto, in un clima di buffa e bella condivisione umana che si conclude con una degustazione di vini.

Lo strano weekend di Gianni Gebbia prosegue casualmente nel pomeriggio, quando passeggiamo insieme al direttore artistico Corrado Beldì per la città e ci troviamo dapprima nella Basilica di San Gaudenzio a provare la pazzesca sonorità della famosa cupola Antonelliana, per spostarci poi nella vicina Casa Bossi, capolavoro del neoclassico ora semi-abbandonata, a vivere un estemporaneo solo tra le affascinanti stanze e il cortile. Il pubblico improvvisato arriva alla spicciolata e l’emozione è davvero speciale.

Gran finale con la Hackney Colliery Band, brass band inglese che miscela ritmi e melodie senza lasciare il tempo di respirare. Il concerto è sotto il portico, ma il finale – grazie alla pioggia che finalmente ha concesso tregua – è in movimento, sulle note di "Africa" dei Toto, seguiti dal un pubblico festoso.

Me ne parto presto la mattina seguente, rinsaldato nella consapevolezza che Novara sia, insieme a Foligno, uno dei Festival italiani di medio-piccola dimensione che sta lavorando meglio nel trovare una non facile sintesi tra la qualità avventurosa della programmazione, il coinvolgimento di una città e del territorio provinciale, il dialogo con le altre arti (in spazi come l’Opificio Cucina e Bottega o la bella galleria BaseXAltezza) e la voglia che il jazz, anche quello meno facile, sia un qualcosa da condividere con tutti, non da tenere gelosamente per intenditori.

Vedere l’energia, la fatica, la bravura, la capacità di rimediare a piccoli errori o imprevisti, i sorrisi, l’amore per la propria città e per la musica da parte di tanti ragazzi e ragazze che lavorano per questo Festival racconta a volte di più di mille parole.

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