Bergamo Jazz 3 | Con la pioggia e con il sole

Considerazioni finali sull'edizione 2013 del Festival

Recensione
jazz
Piove incessantemente su Bergamo, ma il programma della giornata conclusiva del Festival è talmente intenso che non si sarebbero comunque potute programmare scampagnate, nemmeno a breve raggio. E allora via, con la testa dentro il cappuccio o sotto gli ombrelli, verso questa full immersion di jazz.

Doppio appuntamento mattutino all’Auditorium di Piazza della Libertà. Il trio siciliano Urban Fabula, segnalato dal locale Jazz Club, pur simpatico e informale nel modo di porsi, mi sembra ancora piuttosto immaturo e più attento a mostrare di sapersi districare tra vari stili che non a cercare una cifra personale. Ottimo invece il gruppo Acrobats del sassofonista Tino Tracanna (“gloria” locale ben nota per la sua militanza del quintetto di Paolo Fresu): con Mauro Ottolini al trombone, Roberto Cecchetto alla chitarra, il sempre bravissimo Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Antonio Fusco dietro i tamburi, Tracanna costruisce una musica colorata e solida al tempo stesso, con richiami timbrici e ritmici all’Africa (in brani come "Dun Dun" o "Pagan Deity") e belle combinazioni tra gli strumenti.

Ascoltando il gruppo pensavo però a quanto certe “abitudini formali” siano ancora presenti nel jazz di oggi e ho cercato di immaginare le stesse belle idee musicali sviluppate senza doverle necessariamente declinate in serie di assoli, ma magari attraverso strategie espressive più concise e mobili al tempo stesso (un po’ come fanno – per citare due esempi “vicini” – artisti come il Peter Evans ascoltato ieri o la Mary Halvorson del quintetto che ascolteremo tra poche ore su questo stesso palcoscenico). Una riflessione che non presuppone necessariamente una certezza, ma che condivido qui con voi.
Il successo di Tracanna e soci è comunque meritatissimo e il pubblico si attarda a applaudirli che siamo già a ora di pranzo.

Mary Halvorson dicevamo. Nello spazio pomeridiano Rava “osa” quest’anno quello che la stragrande maggioranza degli altri festival o rassegne di casa nostra continua imperterrita a ignorare. Ha vinto il Top Jazz come Miglior Nuovo Talento quest’anno, è osannata da più parti, la sua musica – che può anche non piacere, beninteso – è comunque originale e si è dimostrata in grado di comunicare anche con generazioni e pubblici abitualmente poco propensi al jazz o all’improvvisazione. Eppure continua a essere difficile che la Halvorson trovi date nel nostro paese (anche la piccola tournée europea in trio del prossimo maggio si terrà ben lontana dai nostri confini, così per avere una conferma!), a riprova di un ambiente mediamente poco coraggioso.

L’Auditorium è pieno e la applaude lungamente: difficile non farsi incantare dalla sua chitarra timida e tagliente (ma capace di accensioni quasi metal), dalle sbilenche andature dei temi, splendidamente sorrette da John Hébert al contrabbasso e da Ches Smith alla batteria e cesellate dalle combinazioni del sax di Jon Irabagon e della tromba di Jonathan Finlayson.

Immagine rimossa.

Non è musica facile, certo, quella del quintetto. I primi due brani partono un po’ in sordina, ma poi la varietà di situazioni sonore e l’aumento del calore complessivo svelano come sia più semplice e emozionante abbandonarsi all’ascolto che tentare di seguire razionalmente le astrazioni della musicista. Il calore degli applausi finali (a occhio e croce non solo quelle dei soliti appassionati) conferma che se si ha l’intelligenza di farle, certe proposte funzionano, anche quelle apparentemente meno immediate.

Anche l’ultima serata al Donizetti conferma il notevole riscontro di pubblico che il Festival ha ottenuto quest’anno. Sul palco salgono dapprima Uri Caine e Han Bennink per un duo che sin dalle prima note si intuisce viaggiare sui binari dell’informalità più contagiosa. Non potrebbe essere altrimenti con due musicisti come loro, capaci di improvvisare senza schemi su temi che spaziano da classici standard a Monk, passando per il Wayne Shorter di una "Nefertiti" la cui melodia appare rapinosamente. C’è tutto quel che si può immaginare nel concerto: il multistilismo di Caine, che al pianoforte alterna anche il fender rhodes e che passa dallo stride al fraseggio più convulso; la teatralità di Bennink, che a oltre settant'anni non rinuncia alle sue classiche gag, dal suonare sdraiato sul pavimento alla busta della spesa che vola per il palco, ma che si conferma ancora una volta la più straordinaria e umanissima macchina da swing che il Vecchio Continente abbia mai espresso.

È un concerto giocoso, che il pubblico segue con crescente complicità, ma che sarebbe ingiusto ridurre solo ai suoi – pur coinvolgenti – aspetti performativi. Nella musica di Caine e Bennink c’è infatti tutta l’essenza e la musicalità dei più profondi processi improvvisativi e dietro l’eccesso del gesto o la pirotecnia di un’intesa (splendidi i momenti in cui il batterista olandese accompagna solo con rullante e spazzole) si nasconde la natura stessa del rimettersi in discussione.

Chi non si mette particolarmente in discussione, ma al suo pubblico va bene così, è il chitarrista John Scofield, cui tocca l’onore di chiudere (con grande successo) il Festival. La musica del suo trio con l’organo di Larry Goldings e la batteria di Greg Hutchinson è dotata di una leggerezza accattivante. Non fosse che il caldo pazzesco della platea del Donizetti contribuisce a una certa insofferenza, me lo godrei fino in fondo, nonostante la monotonia della formula e il linguaggio ormai esausto dal punto di vista dell’esplorazione espressiva. Siamo infatti tornati prepotentemente a quel bisogno di conferma di cui parlavo nella prima puntata del mio diario bergamasco, ma qui la qualità è comunque molto alta e si va a dormire con un sorriso sulle labbra.

Il bilancio di questo Festival 2013 si può dire complessivamente positivo. Gli organizzatori di certo si sfregano le mani per la soddisfazione delle presenze e Bergamo si conferma come uno dei cartelloni più autorevoli del panorama nazionale.

Alcune annotazioni le ho disseminate qui e là nella mia cronaca, ma vorrei rilanciare una riflessione, proprio in virtù del successo della formula, che immagino possa sulla carta indurre a non “cambiare” la squadra che vince, come si suol dire.
La questione è quella che chiamerei dei “due mondi”: nel suo primo biennio Rava ha portato nel segmento pomeridiano del Festival – popolato anche da una consistente fetta di pubblico che poi non va al Donizetti – nomi come Owen Marshall, Craig Taborn, Tim Berne, Marc Ribot, Peter Evans e Mary Halvorson e ha fatto unanimemente centro. Rileggiamoli questi nomi, che a chi segue il jazz più irrequieto possono sembrare persino ovvi. Rileggiamoli perché non è facilissimo trovarli in altri festival della penisola e questo è un merito che a Rava, sebbene in terra caecorum, va riconosciuto pienamente.

A questo segmento pomeridiano ne corrisponde uno serale in cui il desiderio di non deludere il grande pubblico ha portato nel medesimo biennio a scelte assai meno coraggiose e pure a qualche scivolone, dalla improbabile Buika dello scorso anno al rottamato Hermeto Pascoal di ieri.
Posto che scalfire il lato “popular” degli appuntamenti serali sembra piuttosto difficile (e forse nemmeno giusto per le strategie di una città che voglia accontentare una larga fascia di pubblico), mi sembra allora interessante pensare, per le edizioni future, alla possibilità di aumentare invece gli spazi “altri” rispetto al Donizetti, spazi magari con capienze non grandissime, ma in grado di valorizzare al meglio esperienze musicali meno scontate e di fare di queste la vera ossatura di un progetto culturale di livello europeo.
Un pubblico nuovo, in fondo, si costruisce solo così, passo dopo passo, e credo che un Festival di questo livello possa permettersi un ruolo di stimolo in questo senso, essendo magari di esempio per altri Festival e altri curatori.

Più che un desiderio, un augurio! Che magari nel 2014 ci sarà magari anche il sole.

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